04 ottobre 2012

Allora cos'é l'amore

- sai ma', avrò avuto undici dodici anni e mi ricordo di aver avuto la sensazione che tu volessi andartene via.
Lei mi guarda, ed il muro della sua perenne severità crolla, dopo tanti anni.
Continuo - l'ho sempre saputo che non ce la facevi più, ma che restavi per tenerci uniti. Non dicevo niente perché facendo finta di niente tutto andava avanti uguale e voi eravate sempre lì. Sono cresciuta sapendo che non sei stata felice per la maggior parte della tua vita.
Osserviamo in silenzio Alberto che ci sorride, e mentre gli metto il borotalco gli si rizza il pisello e ci viene da ridere. - è proprio un ometto.
Io e Paolo abbiamo deciso di avere una bambina. Dovremo mettere la X sul sesso stavolta.
Con questo tipo di inseminazione artificiale vengono fuori principalmente maschi.
- poi papà aveva avuto il cancro e tu ti sei dedicata a lui tutto il tempo.
Andavamo avanti e indietro dall'ospedale per la chemioterapia.
Io credevo che la chemioterapia fosse una cosa complicatissima, fatta con macchinari sofisticati e pericolosi. Invece si trattava solo di flebo, decine di flebo. Lui usciva e stava benissimo, come se gli avessero iniettato il siero della vita eterna, invece dentro moriva.
- Voleva andare a caccia, ti ricordi ma'?
Mettiamo Alberto nella culla e ci sediamo sugli sgabelli in cucina.
E' tutto nuovo, la casa è nuova. Paolo ha ottenuto un posto da dirigente e quasi immediatamente grazie ai mutui agevolati per i dipendenti della Banca abbiamo comprato questo appartamento di centocinquanta metri quadri su due piani. E' troppo grande per noi, ci sono angoli bui in cui nessuno metterà mai piede.
Faccio mezzo bicchiere d'acqua a mo' di posacenere e dal primo cassetto tiro fuori il pacchetto mezzo pieno di Diana light. E' il nostro piccolo peccato da casalinghe disperate, la sigaretta della sera.
Lei è arrabbiata con me perché ha scoperto di Luca.
Ma io sono una buona madre e una buona moglie e diavolo questo è il prezzo che paghiamo, come si fa ad essere fedeli per una vita intera. Luca ha ventitre anni e non sa niente della vita, scopiamo e poi lo carezzo affettuosamente.
Voglio bene a Paolo, e gli sono grata di quello che fa per noi. Adoro aspettarlo la sera, scherzare con lui. Amo il nostro vocabolario familiare. Se questo non è amore allora cos'é l'amore.
- Dovresti darci un taglio, dice lei.
- Non sono affari tuoi.
- Sono sempre tua madre.
Sarà sempre mia madre. Come papà sarà sempre mio padre.
Ricordo l'immagine della porta del cimitero, un grande muro, alto, circondato di sterpaglie bruciate dal sole. La porta gotica con la grande croce al centro, le due piccole finestre sbarrate simmetriche, l'aria immobile nel pomeriggio di Agosto. Ci sono tombe singole e tombe in gruppo, nessuna aveva la terra smossa davanti.
Alcune avevano edera sulla pietra, altre foto in bianco e nero.
Papà quel giorno aveva solo calce intorno ad una lastra non incisa, in alto, sopra altre persone morte.
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03 ottobre 2012

Periferia nord

Sono andato a trovare mio zio, ho dormito lì, ed al mattino alle cinque sono ripartito.
Quando la strada è diventata insopportabilmente dritta, dopo un'ora circa, ho dovuto alzare il volume della radio per tenermi sveglio. Dopo un blackout del quale non conosco la durata, il rumore sordo dello specchietto che esplode e lo stridore della lamiera mi riportano ad una coscienza piena, terrificante. Il fianco destro della mia automobile sta rumorosamente aderendo con la parete di una galleria ad una velocità di centotrenta chilometri orari.
D'istinto cerco di rimettere la vettura in carreggiata, ma perdo il controllo ed inizio a girare. Non urlo, mi adopero per sopravvivere, aggrappandomi disperatamente allo sterzo ed ai freni, cercando di arrestare questa bomba impazzita che un tempo era la mia macchina.
Improvvisamente sono fermo, immobile, vivo, con stereo e motore acceso: a meno di un centinaio di metri un autotreno si dirige verso di me a tutta velocità sbandando vistosamente. 
Sono in mezzo alla carreggiata girato contromano. -ecco è finita, penso.
Il cuore pompa all'impazzata, un'inaspettata prontezza di riflessi mi fa pestare il piede sull'acceleratore, sgommo via letteralmente proprio all'ultimo, come in quei film americani in cui il protagonista rimane bloccato sulle rotaie mentre arriva un treno.

Dopo qualche minuto di risate isteriche riesco a fermarmi in una piazzola.
Scendo, respiro, quasi vomito. Ripenso al ponte subito fuori dalla galleria, al guardrail sfondato, al trafiletto di qualche inserto provinciale "trentenne precipita da ottanta metri", -stocazzo! penso.
Giro intorno alla macchina, un disastro.

Qualche giorno dopo il tipo dell'officina mi comunica freddamente -ti costa di più metterla a posto che comprarla nuova. 
Perdita totale costruttiva la chiamano.

Ad Ottobre riconsegno le chiavi dell'ennesimo appartamento, in attesa del trasferimento definitivo ad una filiale minore, che, finalmente, ho ottenuto dopo anni di stress metropolitano.
Le ultime notti nello spazio semivuoto sono dolorose, dominate dal senso di incompiutezza e di mancanza di legame profondo con qualunque luogo.
Con profonda gratitudine accetto la sistemazione provvisoria in periferia a casa di un collega, che mi cede volentieri il suo divano. Lui ha quarantadue anni, e vive perennemente braccato dagli avvocati della moglie, per questioni di alimenti non pagati.
In questa cavolo di città è tutto a termine.

Gioco forza mi ritrovo a fare il pendolare in treno.
Il metropolitano è sempre sovraccarico, ma in pochi giorni riesco a riconoscere i volti delle persone con le quali quotidianamente condivido il viaggio.
Mi affascina una signora che poggia sempre un fazzoletto sul sedile prima di accomodarsi.
E' una donna ben vestita, sui cinquanta, con il volto magro poco truccato, ed i capelli scuri raccolti.
Indossa sempre abiti da lavoro eleganti, ha gambe da ragazza e caviglie sottili. 
Alle volte mi ritrovo anche a fare fantasie su di lei.

Sul treno serale invece incontro sempre un tipo simpatico, che come me si occupa di controllo di gestione.
Di più, direi che è un maniaco del controllo di gestione: ha una collezione di file excell sul suo portatile talmente strutturati da farmi quasi paura.
Giacomo, così si chiama, ha appena comprato un appartamento con la fidanzata, che è incinta.
La palazzina è di nuova costruzione, e parte del complesso non è ancora finita.
- dovresti fare un salto a dare un'occhiata, ci sono ottime occasioni. Mi dice.
Anche se sono in procinto di trasferirmi, una sera dopo il lavoro vado con lui a vedere le costruzioni. Riesco a dissimulare il mio orrore, manifestando persino un interesse per un possibile acquisto, memorizzando sul cellulare il numero del costruttore scritto a grandi cifre su un cartellone.
- proverò a sentire cosa hanno per me dai
- magari! sarebbe bello avere qualcuno di conosciuto nei paraggi, sai per una birra, per sfuggire ogni tanto dalla signora! Sai cosa intendo no. E mi fa l'occhiolino.
Mi incammino verso il mio "divano" attraverso un'umida nebbiolina che scende.
Al diavolo, penso. Forse ha ragione lui. Cerca di mettere radici, anche se in un posto di merda. Ama quello che fa. (si cazzo il controllo di gestione!) Questo mio snobismo stronzo da perenne straniero non mi fa bene.
Citofono all'interno del mio collega, e mi rammarico riguardo la sega che non potrò tirarmi pensando alle caviglie della cinquantenne sul treno.

Qualche settimana dopo, l'ufficio del personale mi convoca per formalizzare il mio trasferimento a decorrere dal lunedì successivo. La prospettiva del cambiamento mi entusiasma, e torno alla mia scrivania con un sorriso ebete stampato sulla faccia. Faccio pollice su alla collega che risponde con una smorfia.
Quella sera porto a cena fuori il mio ospite divorziato. Pago io, per sdebitarmi dell'ospitalità e perché lui è perennemente nelle canne.
- Beato te che te ne vai, hai fatto la cosa giusta.
- Non so mica, le prospettive di carriera lì sono minime, ma almeno mi levo da questo inferno di periferia nord.
- Ti sembrerà una stronzata, ma nelle giornate di sole senza questa nebbia di merda, questo posto fa ancora più schifo, eppure nel profondo lo amo.
- Sarà, dico io.

Mentre lui guida verso casa mi chiama mia zia sul cellulare; da quando ho distrutto la macchina non sono più riuscito ad andare da loro.
- Dicono che non lo operano, che l'aorta potrebbe esplodere da un momento all'altro, che l'operazione è troppo pericolosa per uno nelle sue condizioni. 
- Mi spiace zia.
- Non resta che aspettare ora.
- Aggiornami, salutamelo, appena posso vengo lì.
Guardo la strada, ed il mio collega che smanetta con l'autoradio.
Perdita totale costruttiva, penso.
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06 settembre 2012

Due convenevoli e via

Eravamo io e Lorena, io guidavo ed ero triste, lei dormiva con la testa appoggiata al finestrino.

Avevo conosciuto Lorena quattordici mesi prima grazie ad un mio amico fotografo, specializzato in ritratti. Una sera ero a casa sua ad ascoltare qualche disco -aveva una bella confezione di vinili-.
-ti faccio vedere qualche foto, mi dice, e raccoglie un paio di quaderni da una vecchia scrivania in legno, una di quelle con tanti piccoli cassetti.
Erano belle foto, un susseguirsi di persone intente a fare altro, nessuna di loro guardava direttamente l'obiettivo. -sei bravo, gli dico. -riesci a cogliere le espressioni spontanee. -già, è difficile, perché la gente quando sa di essere fotografata assume quasi sempre un'espressione innaturale.
Poi, scorrendo le foto un po' troppo velocemente, un'immagine mi colpisce e mi fermo ad osservarla, mentre dallo stereo riconosco nitidamente l'attacco strumentale di Long as i can see the light, attraverso il quale si fa spazio la voce potente di John Fogerty.
Davanti ai miei occhi c'é una ragazza, seduta in un giardino, con rampicanti alle spalle. Fuma distrattamente una sigaretta e sul tavolo c'é un dolce alle fragole che ha lasciato a metà.
Ha un volto particolare, un neo sulla guancia sinistra, il naso carino e un po' a punta. Ha due giganteschi occhi azzurri ed una chioma spettinata di capelli rossi. E' un po' in carne, ed ha un bellissimo seno prosperoso che si intuisce solamente attraverso una  maglietta scura con le maniche corte e trasparenti, che contrasta con il chiarore della sua pelle. La foto ha così tanti colori e lei sembra così intensamente bella e particolare, da lasciarmi senza parole. -chi è questa ragazza? chiedo. E' bellissima. E la foto è bellissima. -Puoi tenerla, mi fa piacere. Lei si chiama Lorena, ed è una fotografa niente male. -abita qui? -attualmente si, ma passa lunghi periodi a Berlino, dove credo abbia un fidanzato o qualcosa del genere.
- Lorena eh? Cavolo, è stupenda. Ripeto, come in trance.

Qualche sera dopo lui fece in modo di farci incontrare, per una cenetta a casa sua. Parlammo parecchio a tavola, e passeggiando verso casa. Credo di essermene innamorato immediatamente come un adolescente. Dopo pochi giorni stavamo praticamente insieme, e lei non menzionò mai alcun fidanzato berlinese.
Nei pomeriggi liberi la accompagnavo in giro per la città a cercare scorci da fotografare, adorava immortalare le strade di periferia ed i vagoni graffitati, e raccontare dei posti in cui era stata e le persone che aveva conosciuto. Io non avevo girato molto, quindi stavo essenzialmente ad ascoltare.
Lorena è certamente la donna più luminosa che abbia mai incontrato in vita mia, nonostante le foto che scattava fossero così tetre. Forse in quel modo scaricava il suo lato oscuro.

A quel tempo vivevamo nel mio appartamentino vicino al mercato ortofrutticolo. Tappezzavamo la casa di foto nostre, in cui lei faceva sempre boccacce da bambina scema, mentre io provavo a fare la faccia seria.
Una domenica vennero a pranzo da noi due nostri amici, Alex e sua moglie Claudia. Io e Alex avevamo frequentato la facoltà di medicina insieme, ma lui era diventato un buon chirurgo, ed aveva trascorso anche un periodo in un ospedale da campo in Africa. Tornato qui si era piazzato bene, ed aveva sposato Claudia, più giovane di lui di qualche anno. Lei studiava lingue all'università, parecchio fuori corso. Una tipa un po' radical chic, ma abbastanza simpatica a piccole dosi.
- Ti ricordi quando dovevamo andare in Francia per praticare con cadaveri veri? dice lui.
- Dai che metto in tavola, non iniziare con le storie dei tuoi tagliuzzamenti di corpi umani, ribatto io sorridendo mentre verso a tutti un bicchiere di vino.
- E voi due? fa Claudia. Siete in pieno idillio eh?
Lorena mi stringe il polso e risponde -guardaci!
- Pensate di sposarvi anche voi? Siete una bellissima coppia. Poi tu caro mio inizi ad avere una certa stempiatura, dovresti pensare di mettere la testa a posto. Non fartela scappare!
Porto in tavola la pentola di pasta e faccio porzioni abbondanti.
- Tu ti ricorderai, prima di andare in Africa stavo con quella tipa anoressica. Si sarebbe fatta un piattone come questo e poi sarebbe corsa in bagno. All'inizio non mi ero assolutamente accorto che fosse anoressica, era bravissima a mascherarsi. Era un po' strana, certo, ma non potevo immaginare. E si che sono medico.
- Mi ricordo, Giulia. Era carina, ma strana forte. Però c'eri andato parecchio sotto con lei.
- Già, avevo perso la testa per lei. Vi racconto questa, del modo strano in cui l'ho scoperta. Non ve l'ho mai raccontato. Per il suo compleanno eravamo usciti a cena in un ristorantino niente male, anche abbastanza costoso. Dopo aver finito il secondo lei si alza e va in bagno, io resto lì a finire il vino. Ad un certo punto le squilla il cellulare nella borsa, ed allora io allungo la mano per prenderlo. Infilo la mano nella borsa appoggiata alla sua sedia e frugo dentro senza guardare. Sotto le dita sento una materia dalla consistenza molle e umida. Cerco di capire, e scopro che la borsa era piena di fazzoletti di carta pieni di cibo masticato e sputato. Parecchi. Non vi dico, mi si gela il sangue. Ma immediatamente capisco la fissazione di avere sempre con sé i fazzoletti di carta, l'appetito vorace, l'odore vagamente acido del suo alito in certe occasioni. Masticava il cibo, ed abilmente lo sputava nei fazzoletti. E poi andava a completare l'opera in bagno. Sono terribilmente scosso, ma quando torna a tavola cerco di far finta di niente. Era stato come infilare la testa nell'oscurità dell'anima di una persona.
Verso altro vino, Lorena e Claudia ascoltano con attenzione. Lorena mi stringe di nuovo il polso ed io inconsciamente mi avvicino a lei, per annullare ogni distanza tra noi.
- Da quel momento in poi le cose sono andate a rotoli. Tentavo in ogni modo di ostacolare i suoi comportamenti senza dirle mai che sapevo, e questo era causa di orribili litigi e giorni neri. Io ero innamorato di lei, ma questo mostro era troppo grande per entrambi. Quando ebbi l'opportunità di partire, presi la decisione più vigliacca e andai via. Ma non passa giorno -e Claudia lo sa- senza che io senta il senso di colpa per questo. Ho abbandonato a se stessa la donna che amavo, per vigliaccheria.
- E lei ora come sta? L'hai più vista? Domanda Lorena, un po' scossa.
- Non so come stia, non so più niente di lei. Quando ci incontriamo scambiamo giusto due convenevoli e via. Ora è tutta un'altra vita, sono felice e sereno, ed innamorato di mia moglie.
Guarda Claudia, le fa l'occhiolino, e lei gli risponde con un sorriso tirato.

Più tardi, rimasti soli, io e Lorena siamo usciti sul terrazzo a fumare.
Il pomeriggio era stato piacevole, ma la storia di Alex ci aveva reso un po' pensierosi.
Faceva buio abbastanza presto, ed alle quattro del pomeriggio la luce era già fioca. Il mercato ortofrutticolo era chiuso, e l'isolato al tramonto appariva come disabitato. Solo qualche gatto esplorava le pattumiere piene di avanzi dei pranzi domenicali.
Il freddo era pungente, e strinsi a me Lorena -Si può dire di amare tanto una persona e poi abbandonarla così, per paura? Mi chiede.
Non rispondo, perché avrei dovuto rispondere una banalità. Ma dentro di me pensavo che si, è possibile amare profondamente qualcuno, ed abbandonarlo. Tutto può accadere in fondo, anche questo. Di amare e perdere, di non saper definire l'amore, di pentirsi delle scelte.
- Ti amo io, lo sai? Le sussurro, stringendola.

Qualche tempo dopo Lorena vinse quel premio fotografico, e la borsa di studio per il master a Berlino. Proprio a Berlino, pensavo con ansia. Mi ritornò in mente quel fantomatico fidanzato, evocato guardando per la prima volta il suo volto dolce, la torta di fragole lasciata a metà, e i rampicanti.
L'accompagnai in macchina, partimmo di notte. Al confine lei dormiva serenamente, con la testa appoggiata al finestrino, ed io rimuginavo. Misi su Long as I can see the light, la canzone più adatta a quel momento.
E mentre John Fogerty preparava la borsa per il lungo viaggio, io pensavo che avrei perso Lorena proprio quel giorno, che non avremmo sopportato la distanza. Che avrei amato di nuovo, e che lei avrebbe amato di nuovo. Amare è una cosa semplicissima, una questione di convinzione, di mettere via un'altra scatola da scarpe stivata di scontrini, biglietti d'auguri, e fotografie.
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04 settembre 2012

I visitatori fuori, per favore

L'estate era quasi finita, e noi non ce la passavamo per niente bene.
Trascorrevo i miei pomeriggi liberi in ospedale a far compagnia a mio fratello. Lui per la maggior parte del tempo dormiva, e quando era sveglio era perennemente appannato dai medicinali.
Leggevo distrattamente riviste, appollaiato su una di quelle vecchie sedie da scuola, abituato all'odore sgradevole di disinfettante e corpi umani mal lavati. Il vecchio con cui mio fratello condivideva la stanza tossiva in continuazione, ma non sembrava stare particolarmente male. Spesso se ne andava in giro per i reparti, chiacchierando di calcio con gli infermieri. Chissà cosa aveva e da quanto tempo era lì, con me non parlava.
Ogni sera mia cognata faceva capolino nella stanza, lo sguardo stanco. Parlavamo del più e del meno, e degli aggiornamenti generici del medico. "Risponde bene alla terapia".
I medici e gli infermieri non sono esseri umani.
Raramente ho visto le due figlie. Quando chiedevo di loro a Rebecca, più per parlare di qualcosa che per un vero interesse, erano a nuoto, a ginnastica ritmica, agli scout.
Forse era meglio così, evitare loro di assistere al lento disgregarsi del padre.
Ogni tanto lui apriva gli occhi e chiacchierava un po'.
Aveva ancora lo sguardo intenso e la sagacia di un tempo. Il fratello bello, in gamba, vincente.
Il fatto che io potessi entrare ed uscire a piacimento da quella stanza, non mi rendeva migliore di lui.

In quel periodo stavo cercando a fatica di smettere di bere.
Bere è la cosa più bella e facile del mondo quando sei depresso. Il vino è sugli scaffali dei supermercati, non servono buchi in vena o incontrare gente poco raccomandabile in vicoli bui.
La condizione dell'alcolizzato è strana, mantenendo un certo rigore è assolutamente possibile conservare una parvenza di normalità. La regola aurea è bere al mattino solamente lo stretto necessario per tirare avanti fino a pranzo, uno due bicchierini di qualcosa di forte, e mangiare un uovo sodo. Due pinte di birra massimo a pranzo, tre il venerdì, ubriacarsi a lavoro non va bene. Più o meno intorno alle sei, quando iniziano a tremare le mani, e si è aggrediti dal panico, uscire di corsa e sbronzarsi. Dormire.
Avevo deciso di darci un taglio perché il mio fegato sembrava dover esplodere da un momento all'altro. Sentivo un dolore tale da piegarmi in due, pentendomi di essere vivo. Persino pisciare era diventato terribilmente doloroso.
Sapevo perfettamente come vanno queste cose. Sapevo che tutti gli alcolizzati provano a smettere di bere ciclicamente, si prendono una sonora ultima sbronza, fanno un paio di giorni puliti in preda all'entusiasmo, e poi si attaccano alla bottiglia. Più o meno facevo così anche io, ma almeno ero riuscito a limitare le ubriacature da ko. Le mie ubriacature da ko erano tremende, mi chiudevo in casa e bevevo fino allo svenimento, in circa mezz'ora.
Il fatto di limitarle era già qualcosa.

Quell'anno avevo finalmente un lavoro e una casa.
Un mio vecchio compagno di classe, e recente compagno di bevute, mi aveva trovato un posto alle Ferrovie Est, di cui era un funzionario.
Le Ferrovie Est sono una società privata che gestisce un centinaio di chilometri di rotaie tra la città e l'hinterland, servendo principalmente la moltitudine di pendolari che dai paesi dormitorio si muovono quotidianamente verso il centro finanziario e ritorno.
Ero stato assunto come addetto alla composizione dei treni. In sostanza facevo parte di una squadra che fisicamente assemblava i convogli sui binari morti. Il materiale rotabile delle Ferrovie Est mi affascinava, vecchi vagoni dismessi delle ferrovie nazionali, riverniciati di verde e bianco, e risistemati alla buona all'interno.
Il lavoro era poco impegnativo e ben pagato. Si trascorreva la maggior parte del tempo nella garitta degli operatori a guardare la tv e a bere.
Il mio vecchio amico inoltre mi aveva trovato un piccolo appartamento vicino alla stazione.
Si trattava di un monolocale in una vecchia palazzina di ringhiera, molto carino, con il caminetto. La casa era sua, ma me l'affittava a prezzo politico, con il tacito accordo di cederglielo ogni qual volta ne avesse avuto bisogno per scopare, in media una, due volte la settimana.
Lui era sposato ma aveva spesso avventure con giovani donne, forse a pagamento, non so. Mi chiamava con un po' di anticipo, io sistemavo il letto, toglievo le cicche di sigaretta e le bottiglie vuote, e me ne andavo in qualche pub a sbriciolarmi.

Non me la passavo benissimo, ma neanche così male in effetti.
C'era anche questa cosa dei racconti, scrivevo e pubblicavo parecchi racconti sulle riviste. Non avevo tirato su un centesimo scrivendo, però la cosa mi dava parecchia soddisfazione. Dopo un po' di racconti pubblicati  una casa editrice si era fatta avanti e mi aveva affibbiato una editor, alla quale periodicamente inviavo i miei scritti. Non l'ho mai vista di persona ma era una bravissima persona.
Dolcemente tagliava, cuciva, consigliava, riscriveva, rendeva tutti i miei spigoli letterari più morbidi.
Mesi prima del ricovero di mio fratello mi aveva anche procurato un invito per un seminario di scrittura creativa, al quale sono andato ed ho preso parecchi appunti. Alla fine c'era un piccolo rinfresco, durante il quale mi sono ritrovato a chiacchierare con un altro scrittore in erba come me.
Mi dice con una saccenza un po' fastidiosa, "Per scrivere romanzi di successo, servono grandi idee e grandi storie, il quotidiano non funziona.". Forse aveva anche ragione, da un punto di vista hemingwaiano. In fondo è vero che Per chi suona la campana è il più grande romanzo di tutti i tempi.
Ma io all'epoca ero un convinto ed umile seguace di Raymond Carver.
Dopo il seminario telefonai alla mia editor per raccontarle tutto, e lei mi suggerì di buttare giù qualcosa tenendo presente gli appunti. Le dissi anche che la mia ragazza mi aveva lasciato, e lei mi consigliò di buttare giù qualcosa anche a riguardo.
Era più o meno maggio.
Mi aveva lasciato credo per motivi futili, non perché bevevo, il che sarebbe stato anche plausibile.
C'era questo quarantenne divorziato che la corteggiava un po'.
Il tizio era uno senza arte né parte che vestiva da fricchettone, con i pantaloni larghi di lino, i sandali, l'aria vacua da artistoide depresso.
Lei se n'era invaghita e mi aveva mollato di punto in bianco.
La cosa mi aveva fatto girare le scatole, soprattutto perché aveva avuto anche il coraggio di dirmi che lo trovava interessante.
Il tipo se l'era chiavata un paio di volte e poi era sparito con scuse imbarazzanti.
Lei si era rifatta viva per vederci, ma mi ero messo in testa di fargliela pagare.
D'altronde non avevo neanche il problema del sesso, perché ad un certo stadio dell'alcolismo si ha pochissimo desiderio.

Poi arrivò l'estate, io ero rimasto da solo, ed i dottori dopo i primi esami infausti avevano consigliato il ricovero immediato di mio fratello.
Da anni non si vedeva una stagione così insopportabilmente calda.
Facevo sei giorni di turno e due di riposo, e coglievo l'occasione per andare un po' al mare, in una spiaggetta non troppo affollata sotto il ponte della ferrovia. Mi facevo un bagno, e poi leggevo. Una volta però c'era anche la mia ex ad una trentina di metri con il suo nuovo fidanzato, un altro ancora. Non mi avevano visto ed io li ho spiati per un po'. Giocavano a carte sul telo da mare e si sbaciucchiavano di quando in quando. Lui era parecchio più bello di me, con un bel fisico asciutto, ed anche lei sembrava un'altra. Così da quel giorno cambiai spiaggia.
Un'altra volta ero sul bagnasciuga a godermi le onde e poco lontano c'erano due coppie. Trincerato dietro al libro ascoltavo i discorsi. Non avrebbero mai ammesso che tra loro era in corso una gara a chi stava meglio. A chi faceva più figli. A chi comprava la macchina più costosa, la casa vacanze, il gommone. Mi fecero un po' pena però, perché il modo in cui aspiravano nervosamente le loro sigarette lasciava trasparire una realtà diametralmente opposta di frustrazioni quotidiane.
Nel frattempo tentavo di scrivere i miei primi grandi racconti, e non le solite storie di quotidiano dolore. Avevo buttato giù un paio di epopee di guerra, una roba fantascientifica da brividi freddi, ed anche qualche polpettone d'amore. Lì per lì mi sembrarono roba discreta, ma dopo un po' di macerazione sulla scrivania, si rivelarono schifezze. Mandai un messaggio alla mia editor, dicendole "riesco a scrivere bene solo cose che conosco. Riesco a scrivere solo di ubriacature da ko. Mi sa che non ne uscirà un grande romanzo".

A Luglio inoltrato iniziai a soffrire i terribili dolori al fegato, e solo la malattia di mio fratello mi faceva stare meglio. Era come se gli stessi succhiando la linfa vitale da quella sedia di merda leggendo riviste scientifiche.
Dopo il lavoro andavo al supermercato cercando di stare alla larga dallo scaffale degli alcolici, e compravo essenzialmente solo pane confezionato, insalata già lavata, pomodori datterini, e cartoni d'acqua naturale.
Bevevo tantissima acqua cercando disperatamente di ripulire i miei organi marci.
Di tanto in tanto però uscivo la sera con qualche amico e mi ubriacavo ferocemente. -Meglio in compagnia che da solo, lo consideravo un passo avanti.
Rebecca era sempre più preoccupata, ma diceva alle bambine che papà sarebbe tornato a casa, e loro si fidavano.
Era troppo presto per metterle davanti alla monolitica consapevolezza della morte, che depenna a caso le persone e gli affetti uno dopo l'altro. Dovevano godere il più possibile quell'innocenza ingenua fatta di punti di riferimento immutabili, per la quale nulla di brutto può accadere, e tutto si risolve sempre per il meglio.
Capivo Rebecca, ed ero tormentato dai sensi di colpa della mia condizione di egoistica impotenza.
A volte fantasticavo di prendere il posto di mio fratello, di farmi carico delle bambine e di Rebecca in sua assenza.

Agosto fu un monotono susseguirsi di giorni uguali, senza alcun apparente sviluppo.
Il caldo sensazionale smorzava le nostre poche energie.
Una notte il mio vecchio amico mi chiamò e pensai di dover liberare il campo per una serata. Invece aveva lasciato la moglie ed aveva bisogno dell'appartamento. Potevo rimanere per un po', finché non avessi trovato un'altra sistemazione. Non era facile a quel prezzo, se non parecchio in periferia.
Consultavo quotidianamente gli annunci immobiliari, ed ero terrorizzato dall'idea di finire in un tugurio. Sarebbe stata la mazzata finale alle mie ambizioni di uscire dal buco nero in cui mi ero ficcato.
In casa faceva caldissimo, e ci toccava dormire insieme sul divano letto. Tenevamo il ventilatore al massimo, tentando di smuovere l'aria. Non si potevano aprire le finestre a causa dell'afa e delle zanzare.
Alle volte però stare in compagnia non era male, avevamo in comune la passione per i film di guerra, ed entrambi cercavamo di stare il più possibile alla larga dalla bottiglia.
Lui guadagnava bene, e faceva una spesa di livello superiore. Pesce spada, bresaola, gelati. Faceva una pasta con le sarde di prim'ordine.
Passammo la sera di ferragosto a guardare La Sottile Linea Rossa, con un fantastico deumidificatore nuovo  fiammante e rinfrescare la stanza.
Mi sentivo un po' meglio, ma mio fratello nonostante il moderato ottimismo dei medici non usciva dall'ospedale, e giorno dopo giorno era sempre più annebbiato. Parallelamente Rebecca sembrava invecchiare innaturalmente, e non c'era più nulla in lei che ricordasse la splendida trentacinquenne di qualche mese prima.

Una sera un'infermiera grassa ci chiese con scortesia di uscire dalla stanza per fare le iniezioni. Spingendo il suo carrellino, aveva detto senza alcuna emozione "i visitatori fuori per favore".
Nel corridoio Rebecca mi trapassò con uno sguardo pieno di rabbia, con le vene del collo gonfie.

Il trentuno Agosto, dopo tre mesi di siccità, il cielo riversò su di noi una pioggia torrenziale.
Dopo qualche giorno mio fratello era morto.
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18 luglio 2012

Come ho giocato papà?


E' il momento. 
Appoggio la borsa sulla panca, appendo la giacca al pomello.
Lentamente slaccio la camicia, sfilo i pantaloni ed i calzini.
Non mi guardo allo specchio, non rifletterebbe ancora ciò che mi aspetto di vedere.
Indosso i pantaloncini, la maglietta lucida, i calzettoni rossi, li fisso stretti alle gambe con il nastro e li tiro giù fino alle caviglie.
Mi siedo, apro la cerniera inferiore del borsone ed un odore forte di grasso mi riempie le narici.
Le vecchie Kaiser sono ai miei piedi, nere, lucide, aderenti come guanti.
Così bardato, lo specchio in tutta onestà mi restituisce l'io di un tempo, il formidabile terzino dei campi della provincia.
Mi piego sulle ginocchia e le sento indolenzite.

Oh, se ci avesse pensato, la prima sera che fece le scale a un gradino per volta! 
Non gli venne il più lontano dubbio che quella sera fosse molto triste per lui, che su quei gradini, in quell’ora precisa, terminasse la sua giovinezza.

Faccio un paio di saltelli e sono nel corridoio.
Riscopro pieno di gioia il trac-trac-trac inconfondibile e familiare degli scarpini sul pavimento.
Mi scaldo un po' con gli altri, faccio i vecchi esercizi, e gli scatti brevi, mai calciare a freddo.

Un tempo si entrava in campo in due file, l'arbitro in testa, i capitani, i portieri e tutti gli altri. 
Ci si radunava al centro ed al fischio si salutava il pubblico.
Mi volto verso le piccole gradinate deserte sperando di vedere mio padre, che era lì ogni sabato pomeriggio della stagione.
Io sgroppavo come una furia, e poi alla fine, quando uscivo con la borsa in spalla e i capelli bagnati lui mi aspettava fuori dallo spogliatoio, ed io sempre gli chiedevo "Come ho giocato papà?".
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03 giugno 2012

Una cosa piccola, ma buona (parte prima)

Quel Venerdì pomeriggio andò in auto al centro commerciale.
Aveva visto su internet che c'era un negozio specializzato in trenini, ed era proprio quello che stava cercando.
Parcheggiò la macchina nella rimessa sotterranea, fregandosene beatamente del divieto d'accesso per le macchine alimentate a GPL, ed individuò dopo un paio di giri a vuoto una macchina che usciva.
Quel giorno il centro commerciale era molto affollato a causa dell'apertura di un nuovo magazzino destinato all'elettronica. Da alcune settimane circolavano per la Città volantini che pubblicizzavano l'apertura, in occasione della quale alcuni prodotti sarebbero stati venduti sottocosto.
La gente si era messa in coda davanti all'entrata parecchie ore prima dell'apertura ufficiale.
Con indifferenza Daniel attraversò la piazza centrale del Centro Commerciale, fendendo una folla festante e rumorosa di umani, televisori al plasma, impianti hi fi, e forni a microonde.
Il negozio di giocattoli apparteneva ad una catena in franchising, con enormi scaffali colmi di merce e commessi giovani ed indolenti.
All'entrata intravide una coppia di ragazzini litigare davanti ad una consolle in prova con un solo pad. Quello più piccolo voleva giocare, ma il più grande non cedeva il comando, facendo scudo col corpo.
Gli succedeva lo stesso con Sebastiano tanti anni prima.
Dal momento in cui si infilava la cassetta nel Commodore, Sebastiano teneva in pugno il magnifico joystick verde, lasciando a Daniel solo il godimento di ammirare l'astuto Paper Boy o il coraggioso bombarolo Bomb Jack in azione. Bei tempi quelli. Pensò con tristezza. Erano passati solo pochi mesi dal funerale di Sebastiano, morto per overdose in casa dei suoi genitori a ventisei anni.

Individuò la sezione trenini, ce n'erano di ogni tipo. Dai favolosi modellini Lima, a quelli di plasticaccia senza arte né parte, a quelli interamente di legno. Rapito da tanta abbondanza, Daniel soppesò la perfetta imitazione di una storica locomotiva diesel in esercizio sulle ferrovie tedesche negli anni sessanta.
Il prezzo era da capogiro, e lui non era certo lì per quello.
Una commessa intuì il suo stato di indecisione e pensò maledestramente di intervenire: -Posso aiutarla?
Daniel la osservò: la tipica commessa dei negozi in franchising, che avrebbe potuto vendere con la stessa indifferenza e scortesia pesce fresco, orologi svizzeri, o mine antiuomo. Non aveva certo l'aria di un'esperta di modellismo ferroviario, tutt'altro, aveva l'aria di quelle ragazze già un po' troppo avanti nell'età per essere lì, deluse dalla vita e dagli uomini, commesse per diritto di nascita.
-Avete la Fleischmann ERT589 delle ferrovie SBB?
Lei lo guardò con disprezzo, lasciando trasparire tutto l'odio che provava per quei supponenti segaioli del modellismo ferroviario. Rifletté un po' sulla richiesta, scomparve dietro lo scaffale e tornò da lui in pochi secondi, trionfante: -Eccola qui, dettagliatissima, edizione limitata con cofanetto in legno. Prezzo 400 euro, un mito assoluto.
E suca stronzo, aggiunse nella sua testa.
Colpito e affondato, Daniel tornò in sé.
-Bellissimo modello, davvero bellissimo. Ci penso un attimo. In realtà sarei qui per il trenino Thomas, quello dei cartoni animati, ce l'avete?
-E' per suo figlio?
-No
-E' per un bambino? chiese lei maliziosamente, tradendo un po' di sarcasmo.
-Si e no, è per mio cugino, oggi è il suo compleanno.
Valerio, cugino di Daniel, aveva ventotto anni ed era ritardato, nel corpo di un adulto il cervello si era fermato ai quattro, cinque anni. Aveva una passione per i cartoni animati, ed in particolare per le avventure del trenino Thomas.
Quella sera i genitori avevano organizzato una festicciola tra parenti per il suo compleanno.
-Comunque si tratta di un giocattolo che dovrebbe essere nello scaffale "bambini".
-Benissimo, e ce l'avete?
-Si e no in effetti.
-Ce l'avete o no? Daniel intuì il gioco al massacro della commessa ed iniziò a spazientirsi. Perdeva la pazienza abbastanza facilmente.
-Di solito si, ma attualmente no, li abbiamo finiti, è un giocattolo molto richiesto. Dovrebbe arrivare una nuova fornitura la prossima settimana, vuole ordinarlo?
-No grazie, mi serve oggi. 
Aveva solo perso tempo, e non sapeva proprio dove trovare un altro negozio di giocattoli nelle vicinanze.
Era un bel problema, da mesi aveva promesso a Valerio che gli avrebbe regalato quel diavolo di trenino Thomas.
Uscì dal negozio indeciso sul da farsi.
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30 maggio 2012

L'amore non ha età

Mauro ed Alessia sedettero, aspettando che il giorno passasse lentamente.
La tv accesa, mentre le loro memorie svanivano.
Dovevo essere impazzito, ne avevo bisogno, non so cosa mi passasse in testa.
Questo è quello che ottieni, rispose lei con voce asetticca. Hai perso tutti.
Tu me li hai messi contro, provò a ribattere, ma non aveva poi molto senso a quel punto.
Me ne vado a dormire. E rimase solo nel salotto, con le immagini ed i volti che scorrevano sullo schermo.

Le parole di Alessia gli rimbombavano nella testa questo è quello che ottieni.
Mauro cercò il telecomando sul divano e, non trovandolo, si guardò intorno smarrito.
Il salotto gli parve una teca di dolore lancinante ed incorniciato, in ogni angolo, su ogni mobile.
Se avesse trovato le parole adatte riguardo il trascorrere del tempo, il costo delle scelte fatte e delle strade non percorse, della gioventù che sfugge troppo velocemente, degli affetti che si allontanano. Ebbene se avesse trovato quelle parole avrebbe senz'altro serenamente emesso una sentenza di condanna nei confronti dell'esistenza, tanto più spietata quanto più se ne intravede la fine.

Alessia aveva abbandonato quel luogo da tempo.
Aveva smesso di aprire le lettere, di collezionare i punti al supermercato, di leggere le riviste, di parlare a cena. Si limitava a sciabattare mestamente per casa. O forse lui non era semplicemente più in grado di vedere neppure una briciola della splendida dignità della donna che da sempre lo aveva accompagnato, e che ancora, nonostante tutto, divideva senza fiatare quel polveroso letto.

Spense finalmente la tv e guardò l'orologio sul display del decoder, le undici e dieci.
Pensò che a quell'ora Manuel quasi di certo era ancora sveglio, a duemila chilometri di distanza, da solo a guardare un film, oppure insieme a quella famosa ragazza sconosciuta della quale un giorno durante una breve telefonata con sua madre aveva semplicemente dichiarato Sono due anni che la amo, quella donna sarà la madre dei miei figli anche se ancora lei non se ne convince, ma insisterò fino a che cederà.

Spense la luce e si avviò verso la stanza da letto, come ogni sera da quarant'anni.
Nel buio poteva sentire il leggero russare di Alessia.
Si addormentava profondamente in pochi minuti.
Pensò che non è vero quello che tutti dicono, che l'amore non ha età.
L'amore non ha età, dicono tutti.
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29 maggio 2012

Mentre eserciti di carta attraversavano la frontiera

Mentre eserciti di carta attraversavano la frontiera, noi stavamo in silenzio a scrutare l'orizzonte.
Sotto una pioggia sferzante avevamo deciso che nulla di brutto sarebbe accaduto se avessimo tenuto gli occhi aperti tutto il tempo, a turno. Se li avessimo tenuti aperti i fantasmi della notte non sarebbero apparsi.

Un tempo amavo giocare con le spade finte che mio cugino Dimitri forgiava con il legname avanzato dal vicino di casa, un valente falegname socialista. Era il gioco più bello del mondo combattere draghi e mettere in salvo donzelle immaginarie dalle bruciacchiature delle creature dell'ade a cavallo dei nostri destrieri a due ruote e catena e pedali.
Ma io ero solo lo scudiero, perché Dimitri era sempre il valoroso cavaliere che in uno slancio di impeto e d'ira riusciva a trafiggere il drago nel punto debole, facendolo stramazzare al suolo in mezzo a nuvole di zolfo.
Andava bene così però, perché essere parte dei giochi dei grandi era bene, fosse anche solo per reggere lo scudo, la spada nella fodera, ed i tramezzini nella bisaccia.
Altre volte avevamo le Colt.
Le sorelle costruivano le tende, ed era un mondo fantastico.
Uscivamo, e fuori c'era il deserto, i cactus, ed i Sioux. 
Qualcuno sarebbe morto di certo in quei giorni, nel deserto, un indiano, un fuorilegge.

Si era fatto tardi e decisi di tornare al fuoristrada. Per distrarmi dalla noia del lungo cammino provavo a ricostruire nella mia mente quei giorni perduti con Nadia e Dimitri.
A furia di camminare da solo sarei diventato un santone, non fosse stato per il fucile e la cartucciera.
Attraversando un boschetto intravidi un ronzante banchetto di mosche accanirsi sul corpo dilaniato di una lunga biscia nera. Scacciai gli insetti ed osservai da vicino la carcassa del disgustoso animale, che sebbene innocuo, ingenerava in me sempre un certo terrore.
Una volta, seduto su una pietra a fumare una sigaretta, un serpentello aveva risalito la mia gamba scivolando su a velocità folle. Ricordo l'insano orrore che mi aveva colto, e la corsa urlando come uno sciamannato con il cuore impazzito.
Sentii un rumore di rami spezzati al di là dei cespugli, nel boschetto.
Imbracciai e puntai e feci fuoco.
Silenzio.
Attraversai le sterpaglie ed eccolo lì, un uomo a terra con le mani sulla pancia, la mandibola serrata dal dolore. Respirava, era vivo ma pieno di pallettoni in pancia, non un bello spettacolo.
Non osai alzargli la camicia mimetica per dare un'occhiata.
Cazzo amico, cazzo! Che casino cazzo! Ora ti porto in ospedale benedettoiddio.
Mi guardò con un misto di odio e gratitudine.
Io lo avevo steso, ma d'altronde ero anche l'unico che poteva salvarlo.
Perché i cinghiali hanno la crosta dura e non vanno giù con un solo pallettone mal piazzato. Ma un uomo no, ci resta secco se impallinato da una decina di metri.
Mi ero proprio cacciato in un bel casino e lo sapevo, e per un attimo fui tentato di mollarlo lì e darmela a gambe. Fortunatamente i miei residui di umanità presero il sopravvento, ed a fatica lo sollevai sulle gambe e lo aiutai a trascinarsi fuori di lì.

Pezzo di stronzo, hai sparato senza guardare, mi hai quasi fatto fuori.
Il tizio cominciò pian piano a rianimarsi, ma ero terribilmente preoccupato perché perdeva una marea di sangue. Forse non si rendeva conto che rischiava di lasciarci le penne, lì, in quel bosco di merda.
Scusami cazzo, non so davvero cosa mi sia passato per la testa, avevo visto un fagiano poco prima.
Non avevo visto alcun fagiano, ma non sapevo proprio a che cazzo stavo pensando.
A Dimitri, a Nadia, alle tende, alle Colt, alle spade di legno, ai draghi.

Camminammo a passo lentissimo, e dopo poco più di un'ora mi sentii sfinito e frustrato.
Il tizio perdeva colorito, ed a tratti non riusciva a camminare, sveniva, si riprendeva.
Crollai anche io, deciso a riposarmi almeno qualche minuto.
Ehi amico non mollarmi dai, che per colpa tua finisco in galera. Se sopravvivi giuro che non sparerò mai più un colpo in vita mia. Ti regalo una cassa di Amaro del Capo. Ti pago la migliore squillo della Lituania.
Sorrisi, ma lui no.
Forse, dopotutto non morirà. Pensai. Se sopravvivi sarò il tuo miglior amico, giuro, giuro.
Gli buttai mezza borraccia d'acqua in faccia e si riprese come da un incubo, stralunato.
Ripartimmo.

La luce diminuì rapidamente e poi sparì del tutto, ed in lontananza intravidi la periferia della Grande Città.
Le fiamme dell'acciaieria illuminavano la sera dall'alto delle ciminiere.
Mancava poco, e mi sentii sollevato.
Normalmente odiavo la visione delle ciminiere, la fine del bosco e l'inizio della civiltà.
Ma quella sera, osservando il ballo eterno del gassoso fuoco blu, un raro entusiasmo mi montò dentro.
Il tizio camminava ancora, bianco come un lenzuolo, seriamente intenzionato a non lasciare questa terra. Aveva scorza senz'altro, e mi dispiacque avergli bucherellato le interiora scambiandolo per un pennuto. Doveva aver perso un po' la brocca, perché iniziò sommessamente a canticchiare una vecchia canzone, che mi fece tremare le gambe.
Lo guardai con stupore, e vidi che aveva il volto di mio padre, anzi ERA lui.
Cantava quella canzone quando era di buon umore, un'immagine vivida nei miei occhi..
Ma mio padre era morto.
Ricordo il momento in cui decisi di odiarlo per i suoi troppi sbagli: Basta papà, ora è troppo, basta così. Mi limitai semplicemente a dire.
Eppure odiare un padre è impossibile, ed ogni giorno che trascorrevo senza rivolgergli uno sguardo o una parola pregavo Dio perché non morisse. Non avrei potuto accettare di perderlo per l'eternità senza avergli detto almeno una volta quanto lo amavo.
Fu proprio così che andò.
Il tizio smise improvvisamente di canticchiare e sbiascicò qualche parola, tipo la strada
Zozzi, infangati, insanguinati e sfiniti, salimmo sul fuoristrada e lui si lasciò andare allo svenimento, conscio di aver superato il braccio di ferro con la morte.
Accesi il motore e pensai all'ospedale più vicino, poi partii a tavoletta.

Avevo quasi ucciso e poi salvato uno sconosciuto.
Ma non ero riuscito a salvare mio padre.
Sul lunotto le fiammelle blu riflettevano una strana danza.
Pensai a me e Nadia stretti stretti durante i temporali, intenti a tenere gli occhi spalancati per contrastare l'arrivo dei fantasmi della notte. Alle lunghe e coraggiose esplorazioni nei campi deserti, gli occhi puntati all'orizzonte, mentre giganteschi eserciti di carta attraversavano la frontiera.
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25 maggio 2012

Possa null'altro che felicità bussare alla tua porta

Portami in qualche posto carino, disse lei salendo in macchina.
Manuel aveva conosciuto Lucie pochi giorni prima, in pausa caffé. Lucie aveva appena iniziato uno stage di sei mesi postuniversitario, e, spaesata, si aggirava per la prima volta nel mondo del lavoro, degli uffici, delle gerarchie. Manuel prese un 42 dalla macchinetta e con la chiavetta, della quale lei non beneficiava, le offrì un caramelloso ginseng.

Per lui il periodo di déplacement era quasi terminato, ed a breve sarebbe rientrato in Italia all'ordinaria amministrazione. 
Io non sono come quegli stronzetti viziatelli che possono andarsene a fare l'erasmus cazzeggiando beatamente per un anno in qualche città spagnola, io all'università ho dovuto cagare sangue da studente lavoratore. Lo scientifico eh? Ma conosce il latino? Quel merdoso professore al secondo esame. Ficcateli in culo i brocardi, bastardo.

Lucie sorrideva nonostante la pioggia battente, ed immediatamente allungò le gambe come una ragazzina ed inizò a smanettare con l'autoradio, skippando una traccia dopo l'altra. Il disco era Come on Die Young, ed anche mettendo avanti all'infinito da lì non si sarebbe scappati per nulla al mondo.
Manuel d'altronde non aveva portato una gran collezione di dischi per quel lungo soggiorno, giusto i Mogwai, Nick Drake, qualcosa dei Radiohead. In un negozio di dischi ai Docks aveva comprato per pochi euro una raccolta di Tim Buckley.
Trovare un posto carino in una giornata ottobrina così macabra non sarebbe stato facile.
Manuel imboccò quasi senza pensarci il ponte di Normandia, e, nonostante le secchiate d'acqua sollevate dalle bisarche a passo d'uomo, non si poteva restare indifferenti allo spettacolo del fiume che diventa mare in uno scontro perenne tra acqua dolce ed acqua salata.
Ti sei mai chiesto come facciano i pesci a capire quando finisce il mare ed inizia il fiume e viceversa?
No, non se lo era mai chiesto.
Sai non credo ci sia un confine così netto, forse ci sono punti in cui il mare è un po' meno salato ed il fiume un po' più salato.
Ma non ne era certo per niente.

Quando parcheggiò ad Honfleur era già quasi buio, sebbene non fosse passata neppure mezz'ora dal momento in cui avevano timbrato il cartellino in uscita, salutando Bertrand, l'usciere di colore.
Girò intorno alla macchina con l'ombrello aperto, cavallerescamente, e si infilarono in un bistrò.
Lucie era dannatamente carina, anche se all'apparenza un po' stupida, ma forse era solo la giovane età.
Il suo abitino nero e le forme un po' generose mettevano Manuel in uno stato di esaltazione.
Lucie insistette per ordinare le lumache.
Devi succhiarle così dal guscio, in un colpo solo.
Ma è disgustoso, ecouerant!
Bevvero Chablis e Manuel un doppio Calvados che lo aiutava ad essere molto più sciolto di lingua, nel suo francese figlio dell'esperienza, e di modi.

Il ristorante La Petite Brocante era uno dei più conosciuti di Honfleur, e ad un tavolo poco distante erano seduti quattro colleghi decisamente abbevazzati, che avevano immediatamente individuato la coppietta atipica a lume di candela: l'ospite italiano e la giovane stagista puttanella.
Manuel si sentì gli occhi puntati addosso tutta la sera, immaginandosi il pettegolezzo del mattino successivo in sala relax. I rapporti di quel tipo non erano particolarmente benvenuti in azienda.
Poco male, pensò. Poco male, che cazzo me ne frega.
Al ritorno lo attendeva la sua noiosissima fidanzata.
E i sabato pomeriggio all'Ikea.

Uscirono a braccetto, fuori aveva smesso di piovere ed un vento ghiacciato sferzava il lungomare.
Passeggiarono un po', e Manuel le infilò la lingua in bocca e lei l'accolse con morbidità.
Non essendoci nessuno in giro Lucie gli infilò la mano nei pantaloni iniziando a tirargli una sega.
Lei aveva un sapore di buono.
Lui aveva il sapore del sigaro a causa della bruciacchiante dose di Calvados.
Hai capito la puttanella, neanche il tempo di limonare un po' e ce l'ha già in mano.
Come quella vacca che mi sbattevo ai tempi. Neanche il tempo di salire in macchina sotto casa e stava già spompinando, era un'idrovora.

Lucie non era particolarmente attratta da Manuel, ma era stato gentile, ed un lavoretto se lo meritava.
In quei giorni di merda, in quella città di merda, in quell'open space di merda, dove nessuna delle colleghe se la cagava neanche di striscio, perché era giovane e carina e formosa, dove i colleghi la guardavano come dei bavosi del cazzo. Almeno Manuel l'aveva fatta ridere, l'aveva portata fuori.
Certo, al suo rientro a Nancy non avrebbe detto niente al suo fidanzato.
Quel pallone gonfiato pezzo di merda naziskin.
Manuel le venne in mano, e si sporcarono entrambi.
Avrebbe avuto voglia di alzarle il vestitino, tirarle giù le calze e le mutandine e prenderla da dietro, ma forse era un po' troppo per un lungomare. Pensa se i colleghi fossero passati di lì.
E poi così eccitato e senza preservativo rischio veramente di fare un casino.
Tornarono indietro pieni di allegria, facendosi scherzetti, prendendosi in giro.
Manuel si sentì improvvisamente un po' innamorato di Lucie, della sua vitalità sorridente.
Una sensazione adolescenziale e rara per lui, e fu piacevolmente stupito da come le cose possano cambiare improvvisamente, di come si possa passare dal vuoto al pieno, dall'atmosfera allo spazio, dal fiume al mare.
La strinse a sé, lei ridacchiò, e lui le schioccò un bacio, tenero, affettuoso: giusto nel caso in cui non ci vedessimo mai più.

Appena salirono in macchina ricominciò a piovere a dirotto.
Lucie era stanca, e dopo pochi chilometri si addormentò.
Manuel vide sbucare la mercedes troppo tardi, quando ormai non c'era più nulla da fare per evitare l'impatto. Sembrava surreale essere centrati in pieno da un mostro nero lanciato a tutta velocità sotto la pioggia. Vide solamente per un attimo Lucie voltarsi verso di lui, incapace di comprendere quel momento, passando in un istante dall'acqua dolce del sogno, all'acqua salata della vita.
Manuel non percepì alcun dolore, non gridò, quando il lato guida venne polverizzato dal muso pesante dell'auto tedesca, sparando la berlina francese a diverse decine di metri di distanza.
Sentì solo stridore di metallo fragoroso ed assordante accartocciarsi orribilmente su di lui.
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22 maggio 2012

Lo scellerato patto di Raffaele Allovio

Raffaele Allovio accartocciò il documento contabile e si alzò repentinamente dalla scrivania, rovesciando la sedia a terra, che cadde fragorosamente scheggiandosi.
Il rumore rimbombò in tutta la villa, deserta.
Non c'era più niente da fare: l'indomani Raffaele avrebbe dovuto annunciare agli operai che la fabbrica avrebbe chiuso i battenti per sempre.

Suo padre, Gabriele Allovio, aveva avviato l'attività esattamente quarantacinque anni prima, sull'onda del glorioso boom edilizio che aveva segnato i favolosi anni sessanta.
La gente abbandonava le campagne per recarsi in città, e servivano case, moltissime case, per accogliere tutti.
E per fare le case servivano i mattoni.
Grazie a questa intuizione Gabriele, allora ventenne, in pochi anni era diventato ricchissimo, al punto tale da venir soprannominato "Il Principe del Mattone".
All'epoca era un semplice giovane muratore di umili origini, un po' rozzo e privo di istruzione, ma dotato di abilità e determinazione mirabili.
Aveva iniziato l'attività con un paio di operai e formidabile abnegazione, dividendosi tra le sfiancanti ore all'altoforno e la ricerca costante di palazzinari da rifornire.
In breve il commercio era diventato così fiorente da permettergli di assumere moltissimi operai a basso costo, e di abbandonare il forno per dedicarsi al lusso ed agli eccessi che da sempre aveva sognato.
Durante una sfarzosa vacanza a Cipro conobbe l'attrice francese Marie Perrau, sul set di un colossal in costume del grande regista Alberto Brandeburgo.
Il Principe del Mattone se ne innamorò perdutamente, e decise: questa donna sarà mia.
Marie, bellissima e sofisticata, si accingeva ad una sfolgorante carriera cinematografica.
Musa ed amante di Brandeburgo, in un primo momento non degnò neppure di uno sguardo il rozzo Gabriele Allovio. Ma lui, con la determinazione che contraddistingue l'uomo di campagna, si recò sul set ogni giorno per tre settimane portando in dono alla giovane attrice immensi mazzi di rose, magnifici cadeau di brillanti, cioccolatini del cacao più esotico e sfavillante dell'universo.
La bella Marie, un po' per tenerezza per quell'omaccione rozzo, un po' per vanità, e soprattutto per dare soddisfazione ai numerosi paparazzi che la seguivano perennemente, finì per cedere alle lusinghe di Gabriele.
Dalla breve e chiacchierata storia d'amore tra l'imprenditore italiano e l'attrice Marie Perrau nacque il primogenito Raffaele Allovio.

Sin dalla giovane età Raffaele mostrò di aver ereditato maggiormente i geni artistici e un po' mondani della madre, piuttosto che il carattere pragmatico e determinato del potente padre.
Frequentava i salotti bene della città, e soprattutto i foschi locali notturni dove si intratteneva in continue avventure amorose, tra fiumi di champagne e disco music.
Alla fine dei favolosi anni ottanta, il giovanissimo Raffaele era uno dei più famosi casanova della borghesia industriale, e spesso compariva nelle riviste scandalistiche da casalinga, immortalato al fianco della misteriosa amante di turno.
Era certo che quella vita agiata sarebbe durata in eterno, grazie all'infinita ricchezza che suo padre, "Il Principe del Mattone" continuava ad accumulare anno dopo anno.

Passò il tempo, ed un giorno Gabriele Allovio, ormai sessantenne, visibilmente dimagrito e stanco, convocò il figlio nel suo gigantesco studio, al primo piano della grande villa.
Figlio mio, il tempo dei giochi è finito. Mi è stato diagnosticato un male incurabile e quel maledetto medico mi ha dato si e no un paio di settimane di vita. Da domani, dirigerai tu lo stabilimento.
Raffaele ebbe la sensazione che un pugno invisibile lo avesse appena centrato in pieno stomaco: sentì mancare il fiato. Ma non aveva alternative, e, con riluttanza, accettò senza fiatare l'incarico. 
Sebbene in fin di vita, suo padre non era una persona alla quale era concesso rispondere con un rifiuto.

Il mattino dopo, di buon ora, indossato un abito di sartoria, salì sulla Maserati, e si recò per la prima volta allo stabilimento in qualità di direttore.
Non fu facile all'inizio, gli amici reclamavano la sua presenza nei fumosi dancing della città, le donne interessate lo stuzzicavano con scherzetti e provocazioni.
Ma Raffaele maturò, assistette il padre negli ultimi giorni, ed imparò pian piano a dirigere l'azienda, facendosi accettare e stimare dagli operai, dapprima diffidenti nei suoi confronti.
Questi, nel tempo, impararono ad apprezzarne la bonarietà, rispetto al carattere burbero del suo temuto predecessore.
E, pur se non con lo sfarzo dei favolosi anni sessanta, la fabbrica di mattoni continuò la sua attività.
Ma un giorno nella grande città tutti smisero di costruire case.
Le altissime gru che da sempre avevano fatto parte del paesaggio come animali preistorici e spaventosi vennero smantellate.
La gente, stanca del caos e dell'inquinamento, decise di tornare alle campagne.
Nessuno voleva più i mattoni di Raffaele Allovio.
E per continuare a pagare i dipendenti fu costretto a ricorrere a numerosi prestiti e cambiali.
Ipotecò anche la grande villa e il suo sfarzoso giardino.
Svendette la sua collezione di automobili.

Marcus Zoenberg Sachs III, avido direttore della Banca Popolare dei Tre Cantoni, accolse Raffaele con un sorriso inquietante e demoniaco.
Carissimo Allovio, lei è nostro stimato cliente da moltissimi anni, e prima di lei suo padre. E' per questo consolidato rapporto che abbiamo deciso di concederle un termine più ampio per il rientro del finaziamento. Sono felice di comunicarle che ha ancora una settimana a partire da ieri.
Trascorsi sette giorni la banca spedì una comunicazione a Raffaele: il tempo era scaduto. 
L'istituto avrebbe preso in consegna tutti i beni, chiuso lo stabilimento ed utilizzato il terreno per costruire un Centro Commerciale o una Chiesa. 
Ironia della sorte, sarebbero serviti i mattoni di Raffaele.

Sollevò la sedia ferendosi le mani a causa delle schegge di legno.
Raffaele pianse, non per la ferita, ma per l'umiliazione, e per il dispiacere di dover abbandonare alla loro sorte i suoi affezionati operai. 
Decise di ubriacarsi come non faceva da anni, dai tempi delle lunghe serate nei night e nelle discoteche.
Bevve almeno una bottiglia di grappa, e mezza di vino rosso.

Poi, per smaltire la sbronza, a notte fonda, uscì per strada.
La grande città era deserta e silenziosa, come in un film.
Camminò per qualche chilometro, finché, stanco e ubriaco, si sedette ad una fermata del trenta barrato.
Un uomo anziano e dal volto amichevole lo avvicinò.
Tu hai bisogno del mio aiuto mio caro.
E tu chi diavolo sei? 
Sono proprio io, il più grande degli strozzini, il supremo usuraio.
E cosa diavolo vuoi da me? Ormai è troppo tardi, la banca mi ha tolto tutto.
Io posso salvarti, posso salvare la fabbrica e gli operai. Ma ogni anno, in questo stesso giorno, mi pagherai una rata del tuo debito, finché vivrai.
E come potrò pagarti?
L'anziano rassicurante avvicinò le labbra all'orecchio di Raffaele, e sussurrò i termini del contratto.
Raffaele, disperato e un po' scettico, accettò senza riserve.

E fu così che Raffaele Allovio vendette l'anima al diavolo per salvare il suo stabilimento.

Il mattino successivo, nonostante il mal di testa fulminante, Raffaele riuscì a sentire il trillo del suo telefono cellulare.
Rispose, biascicando.
Dall'altra parte della cornetta c'era l'imprenditore e senatore a vita Tettanzio Magnasordi, il quale gli richiedeva la più mastodontica commessa di mattoni della storia, necessaria per la costruzione della Nuova Grande Città, un visionario progetto finalizzato a richiamare la gente dalle campagne.
Decine di altissimi condomini a cubicoli, tutti identici, avrebbero costellato il suolo circostante lo stabilimento.
Raffaele Allovio, incredulo, esultò e pianse di gioia, correndo per tutta la villa, ormai disadorna dei mobili pignorati.
Finché un fugace ricordo della sera precedente lo fulminò. 
E' successo davvero? Oppure ho sognato tutto?

Corse alla fabbrica.
Gli operai lo accolsero sbracciando con disperazione.
Un addetto del turno di notte era inciampato e caduto nella fornace insieme all'impasto per i mattoni.
L'addetto, un ventenne assunto da poco, era stato polverizzato all'istante dalle fiamme ad oltre quattromila gradi, e le sue ceneri ora giacevano in una partita di splendidi mattoni rossi, lasciati lì, ad essiccare.
Avrebbero fatto parte della prima palazzina della Nuova Grande Città.
Raffaele Allovio decise che si trattava di un tragico caso, di un fatale incidente che nelle industrie accadono spesso, anche quando si adottano tutte le misure di sicurezza possibili.
Ciò che contava era aver salvato l'attività, ed il lavoro dei suoi fidati operai... tranne uno.
Ma segretamente temeva di non aver solamente sognato il vecchio rassicurante.

Nei mesi vorticosi che succedettero quella fatidica notte, l'attività andò avanti in maniera serrata.
Ogni giorno diversi camion delle ditte di costruzione venivano a caricare i mattoni, ed in breve la sagoma della prima palazzina iniziò a stagliarsi inquietante nel cielo, come uno scheletro.
In meno di un anno Tettanzio Magnasordi con il suo seguito di preti e politici venne ad inaugurare il condominio, e consegnò personalmente le chiavi del primo appartamento ad una delle famiglie di ritorno dalla campagna.
Il visionario progetto del Senatore stava realizzandosi sotto gli occhi di tutti.

Le cose andavano a gonfie vele, e Raffaele Allovio dimenticò quello che era accaduto, ed il suo debito.
Finché, esattamente un anno dopo, un altro operaio cadde nella fornace.
Ci furono numerosi indagini delle autorità, ma gli ispettori del ministero, opportunamente foraggiati dal Senatore, non rilevarono alcuna irregolarità.
Un tragico incidente, un fatale caso, fu detto.
Regolarmente, anno dopo anno, la fatalità si ripeté.
Le palazzine aumentavano, e gli operai di Raffaele Allovio diminuivano.
Ma Raffaele sapeva che quello era il prezzo da pagare per garantire ai suoi operai un futuro per loro e per le loro famiglie. Nonostante i terribili sensi di colpa, proseguì l'attività, e rispettò il suo patto.

Dopo un tempo lunghissimo la Nuova Grande Città fu completata.
I discendenti degli operai dello stabilimento vi risiedevano.
Il luogo brulicava di vita, di amori, di commerciò, di felicità e di infelicità.
Dove prima non c'era che terra incolta, adesso si consumava il miracolo della società.
Raffaele Allovio, ormai molto vecchio, salì sul tetto del capannone: lo stabilimento era deserto.
Tutti gli operai erano andati in pensione, ed era rimasto solo lui a completare le ultime commesse.
L'indomani sarebbero state posati gli ultimi mattoni, ed inaugurato l'edificio più grande ed alto della città, alla presenza di Tettanzio Magnasordi Jr, e del suo seguito di grassi preti e politici.

Raffaele guardò la città, che come in una notte di tanti anni prima appariva deserta e silenziosa.
Le sagome dei palazzi si stagliavano sul cielo stellato come gigantesche lapidi.
Ognuno di essi era costruito con le ceneri di un amico.
La Nuova Grande Città era un gigantesco cimitero.
Raffaele Allovio trattenne il fiato, e per un attimo gli parve di sentire le voci dei suoi operai, innocenti sacrificati alla bestia, al dio denaro.
Sorrise loro, domandò perdono.
Sarò con voi, amici miei.
Ma forse era solo il vento tra i palazzi, nel momento in cui Raffaele Allovio si lasciava cadere nella fornace, nelle fiamme eterne.
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19 maggio 2012

Che qualche svogliata carezza

C'é una tizia che gira per casa mia e sono terrorizzato.

Tra le varie decisioni che periodicamente prendo, senza troppa convinzione, una è stata qualle di limitare i danni in amore. L'altra è stata bere meno, e vi lascio immaginare come è andata.
Comunque sia limitare i danni in amore è molto più facile che bere meno.
In prima battuta io non sono propriamente Brad Pitt e questo mi aiuta. Comunque piaccio abbastanza, sarà per quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così, che abbiamo noi, bla bla bla.
In seconda battuta perché per me bere meno è praticamente impossibile senza un'accurata terapia..
In effetti, quando non bevo, mi sento depresso.
Quando non sono innamorato, invece, mi sento normale.

Ma ultimamente al mattino apro gli occhi, dopo le mie sonore russate e lei è lì, sdraiata accanto a me che dorme serenamente. Con il cuore in gola, ed il terrore che mi attanaglia e mi serra la mandibola, con la testa frullata dal vino di prugne della sera prima (la mia nuova passione, il vino di prugne, che mischio con vino rosso da cucina), cerco di uscire dal letto senza che lei se ne accorga.
Potrei anche tentare di soffocarla col cuscino, ma poi dovrei far sparire il cadavere, e non è facile in centro a Milano. A Milano differenziano tutto, in che diavolo di cassonetto dovrei mettere un cadavere?

Io al mattino adoro fare la cacca mangiando un buondì, facendo scorrere l'acqua calda della doccia per creare la giusta quantità di vapore nel bagno.
Ma neanche il tempo di abbattere la sonora erezione del risveglio, saltellando a piedi scalzi verso il bagno, e la tizia dal sonno profondo è immediatamente operativa e spignatta in cucina (se mi è concesso chiamarla cucina) per preparare la colazione.
La guardo con preoccupazione.
In cucina (d'ora in avanti la chiameremo così per brevità) gli oggetti iniziano ad avere una collocazione fissa.
E' comparso persino un coso che taglia le verdure "alajulienne".
Non c'é più l'alone opaco di detersivo sui bicchieri lavati.
Gli strofinacci sono ripiegati a metà.

Mi vesto frettolosamente e salto sulla bici per recarmi al mio amato lavoro.
Lì sto bene perché tutti sanno che sono un pezzo di merda carrierista, e che sarei disposto ad ucciderli uno per uno con una mannaia per un minimo avanzamento di carriera, e quindi mi stanno alla larga.
Ogni tanto "la laida" della contabilità generale, fa il giro degli uffici per far vedere la minigonna girotopa ed il tacco con il plateau. Sta cosa del plateau non mi convince, fa molto travestito.
Un giorno metterà una minigonna così corta che le spunteranno fuori le palle, ed allora capiremo tutto.
Comunque "la laida" non è malaccio, ha quel qualcosa di vagamente zozzo e morboso che affascina tutti noi.
E' una zoccola da film porno amatoriale, quelli in cui gli attori hanno le mascherine di topolino e minnie.

Intorno alle 19.00, dopo il quotidiano aperitivo con Fabio, responsabile amministrativo, (per me doppia birra media doppio malto, per lui doppio gin tonic con doppio gin), me ne vado a casa.
Mi aggiro sospettosamente nell'androne del palazzo per qualche minuto, per vedere se c'é vita nell'appartamento. Lei potrebbe essere lì dentro in agguato.
Fino a quel momento della giornata me ne dimentico, abituato come sono a stare solo e beato come un cane.
Ora nuovamente il terrore si impadronisce di me: in casa mia c'é una sconosciuta.
Una che pretende di mettere a posto la mia vita e le mie cose.
Una che mette le bucce di mandarino nel mio tabacco per farlo profumare.
Una che guarda i telefilm di MTV mentre io dovrei guardare Squadra Cobra 11, o giocare a Operation Flashpoint.
Una che mentre sono lì che guardo Squadra Cobra 11, mi prepara le polpettine di Tofu.
Già il fatto che si ricordi che io non mangio carne mi fa incazzare come una bestia.
Ma le polpettine di Tofu diocane!

Il mio vero lavoro è tenere unita la famiglia.
Torno appena posso perché la mia famiglia non esiste più, è come se una granata a frammentazione fosse esplosa anni fa, e noi ci stessimo tenendo le budella con le mani. 
Se alzassimo le braccia verrebbe fuori tutto l'intestino e moriremmo all'istante. 
Chissà se potremo tenerci stretti le interiora per tutta la vita.
Non posso contare su mia sorella che ha altri casini, tra i figli e il marito malato.
Mia madre sta a pezzi.
Mio padre è nella merda.
Io tendenzialmente sono un disastro, e vorrei lavarmene la mani lasciando ognuno al suo destino, ma il mio senso di responsabilità nei loro confronti è troppo forte.
Forse questo senso di responsabilità si sfracellerà il giorno della cirrosi epatica.

Comunque siccome sono un vero stronzo ho pensato che per farla uscire da casa mia dovevo comportarmi come tale.
Lunedì sera, quando lei era a cena dai suoi e dormiva lì, sono uscito con una.
Ho conosciuto questa tipa ad un aperitivo in cui eravamo seduti a fianco, e mi è sembrata interessante perché parlava molto di letteratura figa.
Dopo cena siamo saliti da me e me la sono scopata.
Solo che questa rientra nella categoria di quelle che si eccitano dicendo porcate mentre le scopi.
Quindi dopo circa due ore che ci conoscevamo, e una ventina di minuti di sesso, standomi sopra, mi dice una roba tipo: "l'altra sera ho brindato con la sborra".
Ora, a parte che una cosa così fa veramente cagna maledetta, mi è venuto quasi spontaneo chiederle (tutto ciò mentre ce l'avevo dentro): "quanti eravate?".
Lei mi ha fatto una faccia schifata modello "mi hai preso per una puttana?", ma diamine, mi è venuto proprio di riflesso chiederlo.
Poi se n'é andata ed io mi sono messo a fumare qualche sigaretta, ed a pensare ad una ragazza che amo, all'amore ed a fare l'amore almeno ogni tanto, guardandosi negli occhi, sorridendosi, baciandosi, senza dire nulla.

La sera dopo la tizia che gira per casa mia era di nuovo lì.
Affettuosa e fastidiosamente premurosa come sempre.
Mi sono messo a mangiare l'insalatina con il tofu avanzato e l'ho guardata con un profondo senso di gratitudine e pace, e con la consapevolezza di essere inadeguato, di aver ricevuto un regalo immeritato.
Lei è uno strano animale che si prende cura di uno stranissimo animale.

Io d'altra parte sono depresso.
Perché quando non sono innamorato sto normale.
Ma lei non mi fa bere abbastanza,
e quando io non bevo abbastanza allora
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24 aprile 2012

Il lungo inverno (Capitolo terzo)

Ed eccomi qua, intontito, dolorante, incredulo, immobile, ingessato.
Il post operatorio è uno stato affascinante: si trascorrono lunghissime ore in stato di catalessi totale a fare strani sogni. Gli antidolorifici fanno il resto: oblio totale.

Uno dei sogni stranamente realistici vede mia madre ripetermi a mo' di mantra: "Fai nuoto, che ti fa bene per l'asma e per le spalle.. Fai nuoto, che ti fa bene per l'asma e per le spalle..", fino a che la sua voce non diventa una sorta di litania. Io fuggo con gli occhi gonfi di lacrime, ticchettando sul pavimento di marmo con le lucidissime Copa Mundial ai piedi, e nelle narici l'odore forte del grasso di foca (pausa nella narrazione, l'autore va a documentarsi sulla natura del grasso di foca, e poi allibisce pensando a quei simpatici animaletti massacrati per le mie Copa Mundial).
Secondo sogno realistico: Nina che mi costringe a spogliarmi in pubblico, ed il mio pene diventa grande quanto una lumachina intirizzita. Lei ride, tutti ridono. Ed allora vorrei smenazzarmelo per mostrare la mia imponente verga nel pieno del suo turgore, ma non c'é niente da fare, è moscio, raccolto, invisibile.
Terzo sogno dannatamente realistico: il Maresciallo Tito che si suicida.
Il Maresciallo Tito era il mio cane, un magnifico spinone maculato.
Naturalmente non si è suicidato, è andato nel paradiso canino alla veneranda età di quindici anni, stroncato da una overdose di cioccolato fondente, rubato dalla borsa di mia madre e fagocitato con sommo estremo piacere nel giro di pochi secondi.
Ma nel sogno il Maresciallo Tito assume il cioccolato lentamente, sdraiato su una chaise long vittoriana, discutendo con me dell'immortalità dell'anima, così come Socrate bevve la cicuta per obbedire alle leggi dello stato.

Insomma, sogni agitati prima del ritorno alla consapevolezza.
Finiti gli antidolorifici c'é una sola cosa: dolore.
Dolore ancestrale, continuo, torturante.
Poi anche questo si assottiglia, e resta la subdola paura del dolore, che ti fa diventare immediatamente un vecchio, che ti gela il sangue ogni volta che senti un cigolio, uno scrocchiare improprio delle articolazioni.

Fino al momento in cui ti dicono: ok, puoi andartene a casa.
Nei rari momenti di lucidità ho ponderato con attenzione riguardo il luogo in cui avrei voluto trascorrere la mia lunga convalescenza.
Di certo non posso andare a casa dei miei, luogo caotico come un bazar di Istanbul. 
Già mi vedo, immobilizzato in salotto, con quello stronzo di mio padre che parla contemporaneamente a due cellulari (cliente con uno, amante con l'altro), mia madre che continua a sfornare manicaretti, telegiornale, nipoti rumorosi e demoniaci che scorazzano, e poi i parenti di passaggio, la nonna con badante marocchina e ficcanaso nel weekend, la donna delle pulizie maldestra.
Io ho bisogno di tranquillità, e soprattutto di privacy.

Con papà tra l'altro le cose sono precipitate drammaticamente.
Non ci parliamo quasi più, lui sa che io ho beccato le sue tresche, e mi teme fottutamente.
Ogni volta che apre bocca io lo fulmino con una delle mie frecciate così taglienti da gelare il sangue, ed ogni volta la mia anima si annerisce, nella consapevolezza di pronunciare parole colme di disprezzo e di sarcasmo nei confronti di mio padre. Ma allora perché lo fa? Perché non torna sulla retta via?

In sostanza, l'opzione convalescenza a casa dei miei non è fattibile.

D'altra parte stare a casa di Nina potrebbe essere non meno problematico.
Alcuni pro ci sarebbero: i suoi magnifici pompini, e la possibilità di skillarmi come un dannato a World of Warcraft quando lei è al lavoro. 
Ma il sogno realistico numero due, unitamente all'idea di dover sopportare senza via di scampo le sue sfuriate quotidiane accentuate dalla responsabilità di un figlio e di un compagno invalido e senza reddito, mi rendono alquanto scettico riguardo l'ipotesi di sopravvivere ad un'esperienza simile.
Avete presente "Misery non deve morire"?

Ma poi all'improvviso il fulmine a ciel sereno.
L'illuminazione.
La salvezza.
Come diavolo ho fatto a non pensarci prima?
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16 aprile 2012

Il lungo inverno (Capitolo secondo)

In quel periodo stavo insieme ad una ragazza più grande di me di qualche anno, Nina.
Nina era carina e completamente pazza.

Ci siamo conosciuti alla tipica festa tardo-adolescenziale, dove maschi trentenni stonfati di alcool provano a rimorchiare donne ultratrentenni uscite da storie problematiche.
Dopo la più banale delle conversazioni ci siamo trovati a limonare squallidamente su un divano, e poi, a tarda notte, con la scusa di accompagnarla a casa in macchina, abbiamo fatto sesso sul sedile del passeggero. Una furia cieca, Nina.

L'inizio non propriamente romantico lasciava presagire un futuro altrettanto spiccio.
Dopo qualche settimana di frequentazione mi trasferii a casa sua, un piccolo appartamento in periferia che condivideva con il figliolo di quattro anni, Tommaso, un bambino abbastanza schizoide e per niente socievole.
Il padre, un pallanuotista palesemente ritardato, veniva a trovarlo senza troppo entusiasmo ogni weekend.
Da par mio non è che facessi il padre, era più come avere un coinquilino in miniatura con il quale non puoi neanche farti una birra. Io non davo troppo fastidio a lui (anzi a volte facevo anche finta di prendermene cura) e lui non ne dava assolutamente a me. 
Nina però era la più paranoica delle madri: ogni volta che Tommaso correva per più di trenta secondi, verificava lo stato della sua sudorazione che, ove non controllato costantemente, avrebbe di certo causato la prematura morte del ragazzino.
E poi litigavamo per ogni minima cosa. E come poteva essere diversamente? Un trentenne indolente, sfaticato e pigrissimo, insieme ad una madre trentacinquenne frustrata ed insoddisfatta.
L'argomento principale di discussione erano i videogames: lei usciva per andare al lavoro, ed io giocavo ai videogames. Rientrava otto ore dopo, e mi trovava impegnato nella stessa medesima attività.
Io, con la spudoratezza che mi contraddistingue, millantavo di essermi appena messo a giocare.
Una guerriglia costante che penalizzava non poco le mie performance a World of Warcraft.

Nina tendenzialmente odiava me meno del resto del mondo, al di fuori naturalmente di Tommaso, che venerava come un piccolo Buddha.
Odiava i genitori, per motivi che spesso mi raccontava ma che non ho mai colto fino in fondo. La madre non era mai definita come "mamma", ma principalmente come "la stronza", o "quella stronza".
Odiava le colleghe al supermercato dove lavorava. Soprattutto una certa Roberta, che, a suo dire, sarebbe passata dal banco pesce agli uffici amministrativi grazie ad una gerarchica trafila di pompini.
Odiava i vicini, rumorosi e sparapose, e non mancava di escogitare piccoli dispetti quotidiani nei loro confronti, come buttare le sigarette sul balcone di fianco, o fare la lavatrice ad ore impensabili.
Odiava inoltre i cani, i vecchi, il rumore del frigorifero, i peli nella vasca, l'autobus delle sette e venti, il calcio, i film d'autore, la musica tutta, le elezioni politiche, le passeggiate, la birra, il cibo etnico, gli specchi che ingrassano, le commesse dei negozi, i miei amici tutti, una miriade di altre cose, e Roberto Benigni.
Nessuno in Italia odia davvero Roberto Benigni, al limite può stare un po' antipatico.
Invece no, l'odio di Nina per lui era sincero e profondo.

Insomma, non eravamo proprio fatti per stare insieme.
Eppure il giorno della triade infausta convivevo con lei da circa due anni.
Perché mai, vi chiederete? 
Primo, perché ero caduto nella sua trappola dorata, fatta di fantastica biancheria intima.
Secondo, perché avevo troppa paura di quello che avrebbe potuto farmi se avessi manifestato l'intenzione di lasciarla. Non l'avete vista, voi, nei giorni no, affettare la bistecca con un coltellaccio da cucina.
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10 aprile 2012

Il lungo inverno (Capitolo primo)

Ora che siamo qui, sdraiati su questo prato in un magnifico giorno di Maggio, a goderci il sole caldo e il vento tra gli alberi ho la certezza che si, il lungo inverno è finalmente finito. 
Sotto di noi il pendio scosceso, i colori sfumati della primavera avanzata, che più in basso diventano pastello di case, ed ancora più giù diventano blu di mare.
Immaginate la mia storia come uno di quei film indipendenti degli ultimi anni, e questa come la scena iniziale e finale allo stesso tempo: la camera parte su un campo stretto su noi due e poi si allarga allontanandosi lentamente, mentre una musica fatta di rullante, chitarra pulita, pianoforte e violino (suonata da uno sconosciuto ma emergente gruppo indierock) accompagna il nostro diventare due puntini immobili ed indefiniti nell'infinito verde e blu che ci circonda.

Tutto inizia il giorno in cui in una partita di calcetto tra amici centrai in pieno la famosa triade infausta: lesione del legamento collaterale, crociato anteriore, e menisco.
La mia carriera di calciatore semiprofessionista si era interrotta anzitempo diversi anni prima, a causa dell'evidente limitatezza del mio controllo di palla, ed alla scarsa voglia di allenarmi con regolarità. 
Per sfogare quindi la voglia di calcio giocato che affligge la maggioranza degli esemplari di sesso maschile italiani in età compresa tra i sette ed in settanta, non mi restava altra scelta che dedicarmi alla classica partitella di calcetto tra amici della domenica pomeriggio.
Lo spettro di soggetti che calca i campi di calcetto la domenica pomeriggio è quantomai ampio: dal ventenne in forma campionato, al quarantenne obeso, al trentenne fiacco come me.
Quella domenica mi recai all'appuntamento con il consueto entusiasmo, felice di poter far valere come ogni settimana il mio perentorio stacco, l'anticipo assassino "palla o morte", che mi avevano reso tristemente noto sui campi di tutta la regione, fino a farmi battezzare come il "Pablo Montero della Riviera".

La telecronaca immaginaria sarebbe stata pressapoco così.
Siamo al cinquantesimo minuto di gioco di questa appassionante classicissima tra scapoli ed ammogliati che vede in vantaggio gli scapoli per dodici reti ad una. 
Un pubblico delle grandi occasioni scalda i valorosi in campo, inquadrata sugli spalti la bellissima moglie del commercialista Branzini con i due figlioli, ed al suo fianco possiamo individuare l'ennesima fiamma dell'avvocato civilista Pericu, il quale proprio in questo momento (maglietta di Kakà) lancia un bel pallone in profondità. Ma ecco che il fulmineo Pablo Montero della Riviera capisce tutto ed a falcate imperiose sembra poter anticipare l'attaccante avversario. Ma, attenzione! L'attaccante avversario, il temuto Panzer, non si avvede dell'anticipo e calcia a vuoto mancando clamorosamente il pallone e centrando in pieno l'elegante difensore che rovina con un tonfo spaventoso al suolo.
Amici l'infortunio sembra grave a giudicare dalla sua smorfia di dolore!
Il pubblico impietrito assiste alla scena, mentre noi lasciamo la linea ad un minispot.

E fu così che centrai la mitologica triade infausta.
Dopo una nottata di dolore mostruoso con una confezione di fagioli congelati sul ginocchio, durante la quale meditai di amputarmi la gamba con un coltellaccio da cucina, decisi di recarmi di buon ora al pronto soccorso locale. 
Il medico di turno, un giovanotto inesperto e saccente, mi tastò per pochi istanti prima di sentenziare con distaccata professionalità: "è da operare".
Odio profondamente i medici di turno, perché sono completamente assuefatti ed insensibili al dolore altrui, e si lanciano in diagnosi affrettate nonostante tu pensi di meritarti almeno un centinaio di esami, tra raggi, risonanze magnetiche, consulti tra luminari, prima di prendere una decisione così grave.

In quei momenti frenetici pochi ma definiti pensieri ti affollano la mente.
1) Rimarrò zoppo per tutta la vita con pezzi di ferro nel ginocchio.
2) Avrò un sacco di tempo per giocare ai videogiochi.
3) Voglio la mamma.

Il lungo inverno era alle porte, ed io mi apprestavo ad una dolorosa operazione chirurgica.
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