29 maggio 2012

Mentre eserciti di carta attraversavano la frontiera

Mentre eserciti di carta attraversavano la frontiera, noi stavamo in silenzio a scrutare l'orizzonte.
Sotto una pioggia sferzante avevamo deciso che nulla di brutto sarebbe accaduto se avessimo tenuto gli occhi aperti tutto il tempo, a turno. Se li avessimo tenuti aperti i fantasmi della notte non sarebbero apparsi.

Un tempo amavo giocare con le spade finte che mio cugino Dimitri forgiava con il legname avanzato dal vicino di casa, un valente falegname socialista. Era il gioco più bello del mondo combattere draghi e mettere in salvo donzelle immaginarie dalle bruciacchiature delle creature dell'ade a cavallo dei nostri destrieri a due ruote e catena e pedali.
Ma io ero solo lo scudiero, perché Dimitri era sempre il valoroso cavaliere che in uno slancio di impeto e d'ira riusciva a trafiggere il drago nel punto debole, facendolo stramazzare al suolo in mezzo a nuvole di zolfo.
Andava bene così però, perché essere parte dei giochi dei grandi era bene, fosse anche solo per reggere lo scudo, la spada nella fodera, ed i tramezzini nella bisaccia.
Altre volte avevamo le Colt.
Le sorelle costruivano le tende, ed era un mondo fantastico.
Uscivamo, e fuori c'era il deserto, i cactus, ed i Sioux. 
Qualcuno sarebbe morto di certo in quei giorni, nel deserto, un indiano, un fuorilegge.

Si era fatto tardi e decisi di tornare al fuoristrada. Per distrarmi dalla noia del lungo cammino provavo a ricostruire nella mia mente quei giorni perduti con Nadia e Dimitri.
A furia di camminare da solo sarei diventato un santone, non fosse stato per il fucile e la cartucciera.
Attraversando un boschetto intravidi un ronzante banchetto di mosche accanirsi sul corpo dilaniato di una lunga biscia nera. Scacciai gli insetti ed osservai da vicino la carcassa del disgustoso animale, che sebbene innocuo, ingenerava in me sempre un certo terrore.
Una volta, seduto su una pietra a fumare una sigaretta, un serpentello aveva risalito la mia gamba scivolando su a velocità folle. Ricordo l'insano orrore che mi aveva colto, e la corsa urlando come uno sciamannato con il cuore impazzito.
Sentii un rumore di rami spezzati al di là dei cespugli, nel boschetto.
Imbracciai e puntai e feci fuoco.
Silenzio.
Attraversai le sterpaglie ed eccolo lì, un uomo a terra con le mani sulla pancia, la mandibola serrata dal dolore. Respirava, era vivo ma pieno di pallettoni in pancia, non un bello spettacolo.
Non osai alzargli la camicia mimetica per dare un'occhiata.
Cazzo amico, cazzo! Che casino cazzo! Ora ti porto in ospedale benedettoiddio.
Mi guardò con un misto di odio e gratitudine.
Io lo avevo steso, ma d'altronde ero anche l'unico che poteva salvarlo.
Perché i cinghiali hanno la crosta dura e non vanno giù con un solo pallettone mal piazzato. Ma un uomo no, ci resta secco se impallinato da una decina di metri.
Mi ero proprio cacciato in un bel casino e lo sapevo, e per un attimo fui tentato di mollarlo lì e darmela a gambe. Fortunatamente i miei residui di umanità presero il sopravvento, ed a fatica lo sollevai sulle gambe e lo aiutai a trascinarsi fuori di lì.

Pezzo di stronzo, hai sparato senza guardare, mi hai quasi fatto fuori.
Il tizio cominciò pian piano a rianimarsi, ma ero terribilmente preoccupato perché perdeva una marea di sangue. Forse non si rendeva conto che rischiava di lasciarci le penne, lì, in quel bosco di merda.
Scusami cazzo, non so davvero cosa mi sia passato per la testa, avevo visto un fagiano poco prima.
Non avevo visto alcun fagiano, ma non sapevo proprio a che cazzo stavo pensando.
A Dimitri, a Nadia, alle tende, alle Colt, alle spade di legno, ai draghi.

Camminammo a passo lentissimo, e dopo poco più di un'ora mi sentii sfinito e frustrato.
Il tizio perdeva colorito, ed a tratti non riusciva a camminare, sveniva, si riprendeva.
Crollai anche io, deciso a riposarmi almeno qualche minuto.
Ehi amico non mollarmi dai, che per colpa tua finisco in galera. Se sopravvivi giuro che non sparerò mai più un colpo in vita mia. Ti regalo una cassa di Amaro del Capo. Ti pago la migliore squillo della Lituania.
Sorrisi, ma lui no.
Forse, dopotutto non morirà. Pensai. Se sopravvivi sarò il tuo miglior amico, giuro, giuro.
Gli buttai mezza borraccia d'acqua in faccia e si riprese come da un incubo, stralunato.
Ripartimmo.

La luce diminuì rapidamente e poi sparì del tutto, ed in lontananza intravidi la periferia della Grande Città.
Le fiamme dell'acciaieria illuminavano la sera dall'alto delle ciminiere.
Mancava poco, e mi sentii sollevato.
Normalmente odiavo la visione delle ciminiere, la fine del bosco e l'inizio della civiltà.
Ma quella sera, osservando il ballo eterno del gassoso fuoco blu, un raro entusiasmo mi montò dentro.
Il tizio camminava ancora, bianco come un lenzuolo, seriamente intenzionato a non lasciare questa terra. Aveva scorza senz'altro, e mi dispiacque avergli bucherellato le interiora scambiandolo per un pennuto. Doveva aver perso un po' la brocca, perché iniziò sommessamente a canticchiare una vecchia canzone, che mi fece tremare le gambe.
Lo guardai con stupore, e vidi che aveva il volto di mio padre, anzi ERA lui.
Cantava quella canzone quando era di buon umore, un'immagine vivida nei miei occhi..
Ma mio padre era morto.
Ricordo il momento in cui decisi di odiarlo per i suoi troppi sbagli: Basta papà, ora è troppo, basta così. Mi limitai semplicemente a dire.
Eppure odiare un padre è impossibile, ed ogni giorno che trascorrevo senza rivolgergli uno sguardo o una parola pregavo Dio perché non morisse. Non avrei potuto accettare di perderlo per l'eternità senza avergli detto almeno una volta quanto lo amavo.
Fu proprio così che andò.
Il tizio smise improvvisamente di canticchiare e sbiascicò qualche parola, tipo la strada
Zozzi, infangati, insanguinati e sfiniti, salimmo sul fuoristrada e lui si lasciò andare allo svenimento, conscio di aver superato il braccio di ferro con la morte.
Accesi il motore e pensai all'ospedale più vicino, poi partii a tavoletta.

Avevo quasi ucciso e poi salvato uno sconosciuto.
Ma non ero riuscito a salvare mio padre.
Sul lunotto le fiammelle blu riflettevano una strana danza.
Pensai a me e Nadia stretti stretti durante i temporali, intenti a tenere gli occhi spalancati per contrastare l'arrivo dei fantasmi della notte. Alle lunghe e coraggiose esplorazioni nei campi deserti, gli occhi puntati all'orizzonte, mentre giganteschi eserciti di carta attraversavano la frontiera.
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