16 giugno 2010

Le tue lettere hanno occhi

Arianna,
Le tue lettere hanno occhi, che sembrano scrutarmi nel profondo.
Hanno mani che mi schiaffeggiano e labbra per sussurrare.
Le tue lettere sono come vergate di fiamma sulla mia schiena nuda.
Le mie invece sono fatte solo di intenzioni.
Di parole che rimangono parole.
Daniel

Daniel,
Io mi sentivo morire dentro.
Al tavolo solo tre argomenti.
Uno. Calcio.
Due. Film brutti e telefilm sul satellite
Tre. Serate degli anni novanta, quando eravamo più giovani e più stupidi
Nessuno dei tre argomenti mi interessava minimamente.
Frullati in maniera uniforme nella serata, ma ehi, la regola era toccare almeno una volta tutti e tre i punti.
Io sapevo perfettamente chi avrebbe detto cosa e quando.
Li aspettavo al varco e puntualmente “bang!” qualcuno cascava in trappola.
A volte malignamente servivo loro assist ad hoc per vedere fino a che punto si rendessero conto di ripetere sempre le stesse cose come automi.
Non se ne rendevano conto però.
Tua.

Ari,
La prevedibilità e la mediocrità sono le malattie della mia generazione.
L’attesa di qualcosa, il deserto dei tartari.
E’ come in quei film di zombie che mi piacciono tanto.
C’è questa donna che vedo ogni sera con gli amici.
Diosanto quanto mi dà fastidio la sua voce.
La sua non femminilità. Le sue locuzioni dialettali.
Come posso anche lontanamente aver pensato di scoparmela?
La nostra morte coinciderà con il momento in cui non ci accorgeremo di essere diventati mediocri, di esserci mischiati con i mediocri di professione.
Ci proviamo almeno? Dimmi di si.
Dormi bene.

Buongiorno a te,
stamattina vestendomi ho pensato che siamo tutti simili ai blocchi di partenza.
E’ lungo la strada che decidiamo in negativo.
Solo questo sappiamo, no?
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Arianna,
sai forse io sono ciò non voglio e me ne rendo conto.
Non mento a me stesso e agli altri, spacciandomi per uno stabile.
Ho dei continui sbalzi di umore.
Non mi piaccio.
E a volte mi odio.

Daniel,
c’è una linea netta tracciata sulla nostra anima.
Non si può saltellare da una parte all’altra di essa senza pagarne lo scotto.
Bisogna prendere posizione, decidere da che parte stare.
Ciao

Ari,
il tuo nome parla di purezza, contiene un elemento.
Il mio elemento sarebbe il fuoco invece.
Ho sempre voglia di distruggere tutto.
Di strapparmi via gli occhi.
Oggi credo proprio che lo farò.
.

15 giugno 2010

Turbinare di insetti

Il giochetto è sempre lo stesso.
Prendono un cane randagio, lo legano con una corda al gancio traino della vecchia station wagon ed iniziano ad andare. Prima piano, poi sempre più forte, finché la povera bestia, stremata, non comincia a sbattere ai bordi della strada come un pupazzo.
All’interno della macchina i due urlano di sadico divertimento, passandosi la bottiglia di amaro del discount.
Matilde, sul sedile di dietro, non ne può più, soprattutto di lui.

Quando le era apparso sul bordo della piscina, mesi prima, nell’estate afosa ed insopportabile della pianura, aveva sentito un brivido che da tempo non provava. Il brivido dell’attrazione fisica, della voglia di posare le mani su quel corpo asciutto e muscoloso, di farsi scopare con impeto da quel pezzo di carne così perfettamente armonioso.
Matilde non provava una sensazione simile da molto tempo, e sebbene tentasse di resisterle, era conscia di quanto questa fosse impetuosa. Lei, sempre considerata così sensibile, sempre trattata con i guanti come fosse qualcosa di fragile, aveva voglia di fare un po' la puttana. La sensazione cresceva giorno dopo giorno, la sentiva nello stomaco, nella vagina, sulla pelle, finché lui non si accorse dei suoi sguardi sempre più intensi e carichi di desiderio.
Non era un grande parlatore, ma in quel momento per Matilde era l’ultima cosa che contava.
Il passo dal bordo della piscina, ai sedili lerci della station wagon fu schifosamente breve.

La passione era diventata incontrollabile, e sebbene si sentisse sporca, laida, Matilde aveva finito per lasciare quello che era stato il suo ragazzo dagli anni del liceo, studente in medicina, per il giovane bagnino.
Il bagnino era un perfetto mediocre. Privo di cultura, di passione per qualunque forma d’arte, di prospettive per il futuro. Incapace di ascoltarla e di comprenderla, con le sue soluzioni semplicistiche a tutto.
Il suo unico motto era tenere l’uccello dritto ed aspettare qualche occasione, e nel frattempo spassarsela e scopare fighette stupide. Non gli sembrava vero di poter infilare il cazzo in quella ragazza così diversa da tutte le altre, complicata ed introversa, intelligente e studiosa.
Da un lato in compagnia di lei si sentiva migliore degli altri, dei suoi amici meccanici, imbianchini, operai alla raffineria, sempre in giro con delle fighe mediocri, commesse di negozi, pescivendole puzzolenti, madri di famiglia in crisi di mezza età. Dall’altro aveva la sensazione che non capiva fino in fondo di appartenere ad una razza inferiore, di non meritarsi quella donna, e finiva per sfogare la sua rabbia scopandola male, nel culo, con rabbia.

L’estate era trascorsa in fretta, tra la piscina e le chiavate sul cofano e sui sedili inzuppati di sudore, nei parcheggi dei tir, tra le zanzare.
Poi l’autunno, e le fredde serate della pianura. L’aut aut del clima, o caldissimo, o freddissimo.
Passavano le serate in compagnia di Billo, un rozzo apprendista idraulico amante delle risse, vagando su e giù per le strade di campagna, bevendo alcolici da quattro soldi ed ascoltando dischi da hit parade.
Ogni tanto partiva il gioco del cane, o la caccia al barbone, poi tappa al solito pub lercio.

Billo scendeva per primo, loro due chiavavano velocemente nel parcheggio, e quando lui finiva accendeva una sigaretta e raggiungeva l’amico, lasciandola a pulirsi di dosso lo sperma con delle salviettine.
Nel pub loro continuavano a bere, insieme ai soliti quattro amici gretti, parlando di poche cose, dei soliti film, facendo le solite battute, quasi senza niente da dirsi, solo per combattere la noia.

Finché una sera al bancone del pub c’é il giovane medico seduto insieme ad un amico, sorseggiando una birra. Matilde prova ad incrociare il suo sguardo, un tempo dolce, diventato ormai terribilmente severo. Lui alza la testa dal bicchiere, e contraccambia il suo sguardo con disgusto, prima di ritornare a conversare affabilmente con il suo interlocutore.
Lei desidererebbe sparire, tornare bambina e chiudersi nella sua cameretta, a strafogarsi di cioccolata.

Il bagnino si è accorto di tutto ciò. E’ stupido e ottuso, ma gli occhi tremanti di lei non lasciano spazio all’interpretazione. Le avrebbe presentato il conto al momento debito.
Dopo l’ennesima birra tiepida propone a Billo di andare a fare un giro.

Poi il cane randagio che nel giro di pochi chilometri si trasforma in un pupazzo inerme e sanguinante.
Matilde ormai ha capito, è stato tutto uno sbaglio.
Avrebbe voglia di rompere la testa sul cruscotto ad entrambi.
ferma la macchina testa di cazzo, voglio scendere”.
Il bagnino e Billo si guardano divertiti e completamente sbronzi.
La station wagon infila uno sterrato e si ferma.
Il bagnino scende, barcollando, e trascina fuori dall’auto Matilde tirandola per i capelli.
cagna schifosa, lurida troia, cos’è vuoi tornare dal tuo dottorino?” e le allunga un ceffone col dorso della mano che la sbatte immediatamente al suolo.
Il cervello di Matilde ha delle fitte, come se questa cosa non stesse accadendo per davvero.
Eppure il sangue che le esce copioso dal naso imbrattandole la maglietta è suo.
adesso ce la spassiamo un po’ ”, dice il bagnino mentre Billo si slaccia i pantaloni.
.

01 giugno 2010

I treni all'alba

Il capotreno fuma una sigaretta sulla banchina, dando un’occhiata svogliata all’orologio.
Le carrozze coperte di brina sono quasi tutte vuote, solo qualche sonnolento passeggero sfoglia le pagine rosa del quotidiano sportivo. Tra poco il treno ripartirà, scrollandosi di dosso la brina della lunga notte, le centinaia di chilometri divorati nel buio.
Il macchinista si affaccia al finestrino, un fazzoletto sventola sul marciapiede come segnale convenzionale.

Papà nella divisa blu delle ferrovie. Dal distributore bordeaux mi comprava il wafer Bovolino coperto di cioccolato, mia mamma non voleva. Poi stavo con lui nella stazione merci, a guardare gli scatoloni enormi chiusi con lo spago e i piombini, a giocare coi timbri ed i registri ferroviari pesanti e impolverati.

Vorrei essere come i treni all’alba, che si immergono nella luce nascente del giorno nuovo, e scompaiono dalla vista nel riflesso del sole sulle rotaie.

Forse invece i nostri sogni sono i treni che non abbiamo preso.
I nomi dei posti sconosciuti che papà scandiva con voce forte nell’altoparlante.
I luoghi dove i treni non fermano mai.

.

Lettori fissi