23 dicembre 2011

Addio alle armi

Non c'è niente di più soave e malinconico al mondo del suono di un violino.
La voce dello strumento è come il canto di una sirena, mi ipnotizza e mi riporta a casa, al caldo, con Valentina. Chiudo gli occhi, e posso sentire le sue mani passare dolcemente tra i miei capelli, ed il profumo inconfondibile della sua pelle.

Siamo fermi qui da un paio di giorni, accampati come bestie, in attesa di ordini dai piani alti. Fa molto freddo, ed il tempo sembra andare al rallentatore. I nostri gesti sono robotici e ripetitivi.
Mersault non fa altro che smontare e rimontare la carabina, e tenere puliti gli stivali dal nevischio fangoso. Ma è un'impresa impossibile, gli bastano pochi passi per affondare di nuovo fino alle caviglie. Sono molto preoccupato per lui, non riesco più a distrarlo in alcun modo. So bene che l'unico modo per rimanere umani in questo massacro è tenersi su, pensare ad altro, ridere.

Un tempo alla sera, ci radunavamo intorno al fuoco, e Mersault raccontava a tutti noi le sue bellissime storie. Inventava storie davvero avvincenti, che spesso ci facevano sospirare.
A volte i personaggi erano così ben descritti da sembrare veri, non semplici fantasmi di storie mai scritte. Per tutto il giorno, durante le interminabili marce, preparava quei racconti.
Poi venne l'inverno, e l'assalto al paese, il giorno che ci tesero l'imboscata. 
Molti di noi morirono, e Mersault smise di raccontare.
Forse, pensammo, il nostro amico non era pronto ad accettare tanta realtà.

I miei stivali, invece, sono un disastro. E la barba punge.
Ma non ho acqua calda, e nessuna intenzione di radermi a secco con questi rasoi arrugginiti.
Vorrei tanto capire da dove proviene questo violino. Il misterioso suonatore sta percorrendo un magnifico adagio di Tomaso Albinoni, non credo si tratti di un violinista di strada.
Mi aggiro per le vie silenziose, ed in certi momenti mi sembra di essere molto vicino alla musica, ma mi sbaglio, perché di nuovo appare lontanissima.
Mersault avrebbe detto che si tratta di uno spirito condannato a vagare nelle tenebre, e che, una sola notte all'anno, nella ricorrenza della morte della sua amata, gli animi sensibili possano sentirne in lontananza il lamento. 
Un lamento che -dicono- appare come il suono di un violino.

La neve inizia a cadere più forte, e cala il silenzio.
I miei passi scompaiono poco dopo essersi impressi. 
Mersault si sarebbe sbagliato, forse il fantasma sono proprio io.

Il mattino seguente ci svegliamo in un mondo completamente bianco.
Il sottoufficiale dallo sguardo stanco ci comunica l'ordine del giorno, che prevede un lungo spostamento a piedi fino alla provincia, teatro nei giorni precedenti di scontri feroci, ed ora ripulita quasi definitivamente dalla prima linea.
Cedo alla tentazione di guardare il mio riflesso in un vetro. 
Non devo farlo, davanti a me c'è un vecchio. 
La mia gioventù è svanita per sempre.
Mi passo la mano sul volto: quel ragazzo che quattro anni prima era pieno di energia, di entusiasmo, non c'è più. Oggi tornerò nella mia città dopo tanto tempo, sapendo che nessuna cosa è rimasta come l'ho lasciata, soprattutto dentro di me.
Mersault mi osserva, assorto. Percepisce il mio dolore e mi indica con la mano rossa e dolente un punto sulle montagne davanti a noi, dove un rivolo d'acqua scorre attraverso il fango ed il ghiaccio.
Una calma inattesa mi pervade, imbraccio la carabina e mi metto lentamente in marcia insieme agli altri.

E' notte, e la mia città è deserta.
La prima linea si è spostata di alcune decine di chilometri verso il mare.
Nessuna traccia dei violenti scontri, dei subdoli cecchini, e della morte agli angoli delle strade.
Semplicemente un luogo assopito e privo di vita.
Tutti dormono ed io sfrutto il mio turno di ronda per vagabondare per strade che conosco a menadito, alla ricerca dei miei luoghi.
Passeggio lentamente incrociando solo poche anime, e nel profondo del cuore spero di incontrare la donna che amo, come in un romanzo. 
Ma la verità è che non mi riconoscerebbe, perché io non sono più io, e lei chissà dov'è, con chi, e quanto è cambiata in questa eternità.
Arrivo quasi inconsciamente sotto casa sua, e guardo la finestra buia.
Resto lì, paralizzato, per un tempo lunghissimo, indeciso sul da farsi. 
Una parte di me vorrebbe lanciare un sassolino contro il vetro, per destarla dal suo sonno leggero.
L'altra parte invece torna alla visione dello specchio, all'uomo anziano e spettrale, sfinito, diverso.
"Forse non abita più qui", mi dico. Ma so che non è così, ne sento la presenza.
Ed esserle così vicino mi strazia il cuore.

Il risveglio è pessimo. Un colpo di coda del nemico ha messo tutti in allerta.
Sono di certo gli ultimi giorni di guerra, ma la morte è ancora in agguato, ogni giorno cammina al nostro fianco e colpisce casualmente, senza un ordine preciso.
Dobbiamo ripiegare velocemente, ed a passo spedito percorriamo le strade della città a ritroso.
Molti anni fa, camminavo su questo acciottolato con lo zaino in spalla, ugualmente svelto, diretto a tutta velocità verso un futuro radioso.
I suoni della guerra alle nostre spalle si fanno sempre più vicini e minacciosi.

Di nuovo al punto di partenza, seconda linea.
Ci hanno detto che potremmo essere chiamati a supportare il contrattacco entro pochi giorni.
E' necessario che il fucile sia in ordine, pronto all'uso, e mi ritrovo quasi maniacalmente a pulire la canna, a controllare il caricatore, a lubrificare le parti meccaniche.
Mi racconto del ritorno a casa. 
Di Valentina che mi riconosce, e che passeggia insieme a me, ed io la faccio ridere con l'allegria di un tempo.
Invento di un giorno in cui mi permetterà di giocare con il suo ombelico.
Non voglio proprio morire, questo lo so.
E non voglio neppure che i miei amici muoiano.
Li osservo: uomini sfiniti e demotivati, ed in loro percepisco la perfezione.
Osservo Mersault, serenamente addormentato, nel suo leggero russare.

E sebbene tutto sembri irrimediabilmente perso, la gioventù, l'amore, mi guardo intorno, e resto fulminato dalla luce che pervade ogni cosa.
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11 dicembre 2011

Šostakovič

Prova a rannicchiarsi per proteggersi dai calci, ma quelli arrivano, implacabili.
Colpiscono con furia, e lui sente scricchiolare ossa che neppure immaginava di avere.
Schiaccia il volto a terra in una maschera di dolore e lacrime.
Nello stanzino, gli aguzzini gli ricordano che il corpo umano è fragile, malleabile.

Saranno almeno due ore che sono sveglio.
Posso iniziare a bere senza sentirmi in colpa.

Deduce che fuori ci sia la neve attraverso il pallore lunare della stanza.

Mi piace la neve.
Ma la neve è il segnale che devo muovermi.

L'unica cosa al mondo che gli interessa è Camilla.
Quando sorride, attraverso gli occhi belli, dietro la chioma selvaggia di riccioli biondi, la sua anima si scioglie. Lei è la sua casa, la sua redenzione, ma vederla è sempre più difficile.

E poi non voglio quando puzzo di vino. Sempre.

E' da molto tempo che pianifica il furto: sa bene che non ci sono altre soluzioni, che comunque non avrebbe trovato abbastanza soldi in tempo.
Il piano è molto semplice: entrare, prelevare, uscire. Senza divagazioni, senza alzare la testa, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. 

Cazzo, non ci si improvvisa così a quarant'anni.
Gli zingari iniziano ad otto nove anni, sono lesti, invisibili.

Lui, invece, ha l'impressione di avere un neon in testa.
Un cartellone pubblicitario del tipo "ehi, gente! guardate qui che schifo fa quest'uomo".
Comunque, la decisione era presa.

Camilla amore mio.
A Gennaio io mi dissolverò come cenere. 
Ma voglio che tu possa sorridere una volta per merito mio.
In fondo io sono già sparito, io non esisto.
Si esiste solo se si è importanti per qualcuno.
Ma per tutto il viaggio, mi basterà quel tuo sorriso.
Portarlo con me nel gorgo.

Fa la doccia.
E' come se migliaia di spilli ghiacciati gli perforassero il corpo e si sente immediatamente più vigile, pronto all'azione. Beve solo alcuni bicchieri per bloccare i tremori e concentrarsi sull'azione.

La città brulica di attività. 
I negozi sono immensi alveari schizofrenici.
Le ragazze per strada hanno la gonna, le gambe colorate, e dei begli stivali. 
Vanno a passo svelto cariche di buste, felici nei loro cappotti.

Entra nel grande negozio e finge di interessarsi alle cose come un comune avventore; soppesa oggetti, poi passa oltre.  
Infine, con un po' di impazienza, passa all'azione.
Il gesto è ordinario, fino alla barriera fisica ed immaginaria tra il lecito e l'illecito.

La oltrepassa.
Una voce: "signore, scusi".
Fa finta di niente.
Ancora quella voce: "signore, prego, di qui!".
Aumenta il passo, che in pochi metri diventa corsa.

E' fatta. Ce l'ho fatta.
Un raro entusiasmo gli monta dentro.

Qualcosa si frappone: un ostacolo invisibile che lo solleva da terra scaraventandolo violentemente al suolo, privo di respiro.

E' così che cadiamo.

In mezzo agli occhi increduli e disgustati dei passanti, due uomini vestiti con eleganza dozzinale, dicono "portiamolo nello stanzino".

E' così che cadiamo.

Il suo volto si riga di lacrime
mentre gli viene strappato via dalle mani il giocattolo più bello
mentre nel grande magazzino risuona una suite jazz di Šostakovič, 
e l'universo abbruttito e nero si ripiega su stesso.
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30 novembre 2011

Espiazione

Avrebbe potuto camminare in eterno.
Mentre camminava non pensava alla morte, e si dimenticava di respirare: per una volta, inspirava ed espirava inconsciamente.

Di norma sentiva il cuore battere all'impazzata, sopraffatto da un'ansia perenne. 
Soprattutto quando sapeva di dover incontrare persone, per quell'inevitabile necessità di non seppellirsi nella propria tomba di solitudine, apparendo ogni tanto sorridente al mondo, come uno splendido fantasma rasato di fresco e profumato di acqua di colonia.
Ma anche nell'accoglienza del silenzio casalingo, non poteva non pensare alla fragilità del suo corpo, delle sue gambe e delle sue braccia. 
Essere ossessionati dalla morte è una condanna in vita.

Pioveva.
Il pensiero di mettersi al riparo lo sfiorò, ma solo per un attimo: era necessario prestare massima attenzione ai passi, poiché il terreno diventava fangoso molto velocemente, e la strada era ancora lunga.
Sapeva che sarebbe tornato a casa zuppo, e che Giulia lo attendeva con i bambini.
Si guardò le mani e con orrore notò che apparivano cosparse di profondi tagli inesistenti, le linee della vita, una ferita per ogni volta che aveva allungato uno schiaffo ad uno di loro, abbruttito dalla cecità violenta dell'alcool.

Giulia mangiava e vomitava. 
Quando lui ottusamente ostacolava i suoi propositi, lei gli diceva, colma di rabbia e di dolore: tu bastardo non puoi capire cosa si prova. Il dolore mostruoso, il tuo corpo che deve assolutamente liberarsi, al punto da non riuscire a trattenere neanche uno spillo di quello che ha dentro.
E più lei vomitava, più lui si abbruttiva, imprigionandosi volontariamente nell'angusto stanzino colmo di libri, nel quale la montagna di bottiglie vuote si univa all'odore rancido del male che aveva impregnato le pareti.
Entrambi facevano orribili sogni inconfessabili: membra sconvolte dalle lamiere, e corpi ancora coscienti trafitti nell'ultimo spasmo di vita, intenti a chiedere perdono.

La pioggia si era fatta più forte.
Sentì il bisogno del vino rosso scorrergli nella gola, raschiargli l'anima ed il dolore.
Si voltò, e vide i suoi passi impressi nel fango. 
Ma il fango, invece di appesantire il suo ritmo, gli diede vigore. 
La pioggia e gli alberi gli narravano il tempo immobile che lui non avrebbe mai potuto condividere, quel trascorrere così lento da apparire eterno.


Voltatosi nuovamente percepì quanta strada aveva percorso, e per l'ennesima volta notò la profondità dei suoi passi sul terreno. Avrebbe potuto ripercorrerli uno per uno, spurgando le tossine del male, tentando di liberarsi dai demoni che aveva collezionato ed accolto.

Ma davanti a lui apparivano nitide le prime luci della città, avvolta nel silenzio del temporale.
Non vedeva il palazzo, ma poteva immaginare il volto esile di Giulia, i suoi capelli dolenti, la sua pelle tesa ed ingiallita.

Decise che avrebbe camminato in eterno.
Decise che li amava più di ogni altra cosa al mondo.
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21 novembre 2011

L'Enfer des Enfers


Quando il mare infuria, cioè sempre, c'è da impazzire.
Le onde sbattono contro le pareti del faro, facendolo tremare come fosse una baracca di fango, e non un possente manufatto umano, tirato su col sangue da braccia forti e impavide.
Quando un'onda particolarmente forte si abbatte ho la sensazione che quello sia il mio ultimo respiro, lo trattengo e, pur avendo imparato a domare il terrore, resto paralizzato per attimi eterni.

Prego molto Dio ad alta voce, ora che sono solo. 
A volte ho la sensazione che sia l'Onnipotente stesso a parlarmi, a rimproverarmi per l'accidia.
Prima che mia moglie decidesse definitivamente di partire con il traghetto mensile dei viveri, ho avuto più volte il desiderio incontrollabile di ucciderla. Ricordo una notte, reso folle dalla sirena antinebbia, di aver impugnato un coltellaccio con la ferma intenzione di scendere da basso e sgozzarla, come se fosse stata lei a gridare e non quel dannato altoparlante in cima al faro.
Sono contento che se ne sia andata.
Adesso ascolto il Signore che mi parla, e lo contemplo, ammirando la grandezza del Suo disegno.Nessuno può avere la percezione reale della Sua furia, quanto me, un misero custode di un faro del mare del nord.

Nei giorni di bonaccia faccio lavoretti di manutenzione, e la sera esco in cima alla torre, ad osservare i magnifici bastimenti incrociare, salvi -anche- grazie alla mia luce.
Ogni bellissima nave che doppia questo capo infernale mi dona un po' di redenzione, mi aiuta a scontare su questo scoglio un po' della mia turpitudine.

Spesso per giorni non mi è concesso uscire, perché in questo tratto di mare, in cui confluiscono tutti i venti e le correnti del mondo, i frangenti riescono ad arrivare fin oltre la cima del faro. 

Per sopravvivere a questa inevitabile noia ho iniziato a scrivere un libro che non finirò mai, perché non ha una vera e propria trama. Racconta la storia di uno scrittore che immagina me, e narra giorno per giorno le mie attività, come un diario in terza persona, o una biografia. 
Lo scrittore non può e non vuole uscire di casa perché è terrorizzato, e si sente al sicuro solamente nella sua stanza, senza mai incontrare nessuno. Vive da recluso, come un eremita, ricevendo una volta a settimana un'anziana donna delle pulizie che gli porta del cibo, lava i pochi panni, e rimuove svogliatamente un po' della polvere che -oramai- ha trionfato in quell'ambiente chiuso e malsano.
L'unico momento di evasione da una vita da scarafaggio che gli è concesso è quello in cui può descrivere la libertà di un uomo recluso in un faro sperduto. 
Io. 
A mio modo prigioniero nella più infernale e solitaria delle carceri.

Eppure tra me e lui esiste una differenza fondamentale: il fascio di luce che emana pochi metri sopra di me.
Una luce bianca così potente, da essere visibile a decine di miglia di distanza.
Una volta ogni dieci secondi, come un occhio che si apre e si chiude, incredulo.
E se il mondo dovesse spegnersi improvvisamente, in tutto l'universo si potrebbe vedere, per anni, questa luce accendersi e spegnersi con drammatica regolarità. 
Finché il gasolio dura, come una stella morente.

Siamo quindi legati a doppio filo, io e lo scrittore.
Lui vive solo grazie alle mie pagine, ed è libero solamente grazie alla luce sulla quale veglio costantemente, ed io d'altra parte perderei il senno se lui non esistesse, a riempire le mie giornate, scandite solo dal regolare rombo del mare in tempesta, e dal suono ammorbante della mostruosa sirena antinebbia.

La nostra amicizia è il dono più gradito che potessi ricevere in questa esistenza.
Quando un'onda particolarmente forte rovescia il mio bicchiere di liquore, io rido, ed anche lo scrittore ride, immaginando e descrivendo la scena -comica, grottesca- di un uomo che solleva il bicchiere rovesciato, ed in tutta fretta prova a sfruttare l'istante di pace della risacca.

Tutto questo non durerà in eterno, anche se lo vorrei. 
Perché so che questo è l'unico luogo al mondo dove io possa guadagnarmi il perdono, ed ascoltare la voce furente di Dio, che mi parla tutto il tempo.
Qualche giorno fa, all'ultimo approvvigionamento, il comandante mi ha portato la notizia che entro un mese dovrò rientrare sulla terraferma: il faro verrà automatizzato.

Non mi troveranno.
Proprio in questo istante sento la voce dell'Onnipotente pronunciare il mio nome rombando.
Domattina è giorno di pulizie in casa dello scrittore.
L'anziana signora percorrerà l'angusto corridoio come di consueto, e troverà solo la polvere, a coprire come un sudario gli oggetti della stanza, in un luogo senza vita, senza tempo.
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10 novembre 2011

Verrà la morte, e avrà i tuoi occhi

Il trombettista sta seduto con una coperta sulle gambe.
Fa un freddo terribile, e lui col naso rosso accenna tre note così lunghe e malinconiche da farmi pensare ad una nevicata su un camposanto.

Intorno alle undici iniziano a tremarmi vistosamente le mani. 
Batto le dita nervosamente sulla tastiera, i messaggi email continuano ad arrivare uno dopo l'altro ma non riesco a concentrarmi. 
Soffoco: è il segnale che devo bere, che se non bevo mi butto dalla finestra.
Tiro fino alle dodici, esco borbottando, e mi infilo nel bar della metro. 
Mi sparo la prima birra media aspettando l'insalata, la tracanno avidamente, come un assetato giunto all'oasi.
Questa mi calma un po'.
Poi, mangiando, ne bevo un'altra.
Così torno in ufficio, e posso dedicarmi nuovamente al lavoro, senza che nessuno si accorga di nulla. 
Avranno anch'essi i loro mostri, penso, volgendo lo sguardo oltre le finestre. 
Il trombettista non è più lì. 
Lo spazio è vuoto.

Tiro avanti fino alle sei, svolgo il mio compito egregiamente, poi pedalo fino al supermercato.
Compro due o tre cose inutili e passo dieci minuti buoni nel corridoio degli alcolici.
Prendo un paio di bottiglie dirigendomi verso la cassa automatica, perché mi vergogno dello sguardo accusatorio delle cassiere.
Poi, finalmente, posso chiudermi in casa, ed attaccarmi avidamente alla bottiglia.
Spesso non ceno neanche.
Dopo un'ora ho finito la bottiglia, e, raggiunto l'appannamento di cui ho bisogno, mi butto a letto, sfatto, distrutto. 
Guardo distrattamente la tv, non vedo niente.

Da sempre sono preda di un'orribile malinconia, talmente profonda ed irreversibile da avermi costretto, negli anni, a nasconderla -come una brace che cova sotto la cenere- dietro un'apparente solidità, spensieratezza, e voglia di vivere.
E' un esercizio di difficoltà estrema, che posso sopportare solamente grazie al mio vizio di bere.

Attraverso i vetri offuscati della mia mente, inerme, vestito, vivo sogni appannati che scorrono sul soffitto.
In uno ci sono io. Al tempo in cui pensavo di poter salvare gli altri. Cammino sicuro e lancio dardi di verità per indicare il cammino alle pecorelle smarrite.
In un altro, c'è il tuo volto, tu che finalmente, sorridendomi teneramente, vieni a salvarmi.
Tutto fluttua sospeso nel frattempo, anche quell'unica remota possibilità di felicità che mi resta, come se nell'aria risuonasse un notturno di Chopin.

Ed è quel preciso istante in cui sono solo, abbandonato alla mia debolezza, che percepisco le possibilità diminuire, la vita accorciarsi, e la morte farsi sempre più vicina.
Questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. 
Cara Speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

28 luglio 2011

Mezzogiorno di fuoco

Ero lì seduto che pensavo ai cazzi miei con il numerino in mano.
La ragazza di fronte a me avrà ventidue anni ma ha le labbra rosse e lucide, sembra una troia. Pure la vecchia lì a fianco la guarda male, penserà ai suoi tempi forse, o forse è solo invidiosa.
Vorrei avere uno di quei giornali che trovi nelle metropolitane per occupare la lunga attesa.
Teoricamente potrei alzarmi uscire, e poi tornare dopo diverse ore, salvo poi scoprire di aver perso il turno per quarantacinque millesimi di secondo.

Poi entra un tizio che sembra John Wayne, cammina deciso fino ad uno che neanche se ne accorge a due metri da me, e gli scarica due colpi di pistola in pancia, forse tre. Questo come un pupazzo si affloscia senza dire niente.
Rimaniamo tutti in silenzio per qualche istante, paralizzati. La troietta squittisce di paura come un topo di merda, e per un attimo mi intenerisce, poi la guardo di nuovo con disgusto.
La faccenda è seria, John Wayne ha una pistola e si avvia verso l'uscita con una certa disinvoltura, esce e sparisce.

Mi aspettavo più panico, invece niente, quello viene fuori dopo qualche secondo dall'uscita del sicario. Qualche vecchio probabilmente si sarà pisciato addosso perché si sente puzza.
Il tipo colpito tira gli ultimi o forse è già crepato, scomposto come un pupazzo rotto.

Con tutte le telecamere qua dentro non puoi neanche fare che te ne vai prima che arrivino gli sbirri per evitarti le menate, quelli poi ti vengono a cercare. Mi vedo la scena, il maresciallo e il direttore guardando il filmino: "conosce quel coglione con la camicia color frocio che si alza e se ne va?".

Per attimi che sembrano eterni nessuno si avvicina al morto, e comunque nessuno ha la minima intenzione di toccarlo. Metti che ha l'aids. Tanto se ti sparano da un centimetro col cazzo che vivi.
Viene lasciato lì a sbarbattare sangue sul pavimento, ma non tanto a dire il vero, pensavo molto di più.

Mi allontano di qualche metro, i miei muscoli si rilassano e a questo punto aspetto.
Forse non vedo l'ora di dire "era alto ma basso, incazzato o bianco o nero". Potrei anche dirgli, "cazzo somigliava proprio a John Wayne".
Forte però.
Un buon diversivo, non dovrò neanche giustificare l'assenza in ufficio.
Chissà che numero aveva quello nella coda.
Non ho le sigarette.
Ho voglia di scopare.
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