28 maggio 2010

Diluvio

La pioggia cominciò nel pomeriggio di Giovedì.

Al mattino era bellissimo, ma poi, usciti per pranzo, in coda per un panino del giorno prima brulicante di animali massacrati, avevamo osservato i nembi bassi e plumbei radunarsi minacciosi sul mare. Le nubi più nere che avessimo mai visto.

L'aria ferma, pesante, concentrata sotto le nostre camicie inzuppate.

Sulle autostrade vacanziere si consumava il massacro dei moscerini, la cui unica piccola rivincita erano gli autotreni ribaltati, le auto accartocciate e le lamiere gocciolanti.

Passeggiavamo saltando dall'ombra di un palazzo all'altra, quasi come se le zone esposte al sole potessero fulminarci all'istante. Da bambini camminavamo solo sulle mattonelle colorate, per non precipitare nel baratro delle mattonelle bianche.

In questo esercizio sono stati vinti diecimila euro. Osservai Iannelli nel suo quotidiano grattare con una moneta da pochi centesimi un potenziale biglietto milionario. Niente. Erano soldi. Poi brandelli di cartaccia sul lastricato. Chissà quali underwriters sono esposti al rischio della piattaforma petrolifera, chissà che incidenza avrà sulle future pollution clauses.

Venimmo superati da una scolaresca di nani quarantenni che sboccatamente seguivano ed idolatravano le calze a rete della maestra, strappate in più punti, la quale avanzava orgogliosa in cima alla fila con incedere puttanesco. Non erano mai stati bambini, erano nati quarantenni, con i loro telefoni cellulari multimediali, i discorsi seri, ed i sensi di colpa. Sfogarono un po' di odio prendendo a calci un extracomunitario morto e putrefacente, lasciato lì dalla pigrizia degli spazzini e dall'indifferenza dei passanti.

Il mio stomaco non era pronto a tanta violenza in pausa pranzo, e quasi vomitai il sangue fresco ingerito, sulla camicia con le iniziali ricamate di Iannelli. Riuscii a ricacciare il vomito in gola, sentendo un sapore acre sulla lingua. Guarda là! C'é Benvisto, responsabile della Marshh. Mi sta sul cazzo, sa tutto lui. Che poi solo i raccomandati lavorano in Marshh.

Passammo davanti al mimo, impegnato nella preparazione di uno schizzetto da spararsi in vena, mentre il cane impagliato lo guardava con occhi supplichevoli.

Ci parve di percepire un violino lontano. Qualche zingaro all'ombra del sottopassaggio. Avvicinandoci riconoscemmo il motivetto di Love Story.

Sto per morire pensai.

A confermarmelo c'erano le montagne di spazzatura, l'odore di putrefazione delle persone per strada, il dolore lancinante di ogni passo verso la cella di detenzione alla fine dell'ora d'aria. Null'altro che topi.

Poi le prime gocce, sulla spalla, la mia camicia azzurra di lino leggero, improvvisamente si macchiò di nero.

La pioggia, il diluvio di acqua scura.

Quel giorno piovve petrolio. E i tuoni, gli incendi nel cielo.

Piovve per giorni e giorni, finché tutto divenne nero, come le nostre anime, e morto, come già eravamo senza saperlo, nonostante il respiro.

Passarono i giorni, decisi di uscire e camminai nella città deserta.

Il piazzale della grande stazione abbandonata. Di fronte i due grattacieli completamente neri.

Guardai in alto dove un tempo c'era la gigantesca pubblicità del tonno ed il grande orologio e termometro digitale.

Nello spazio vuoto tra le due torri scoprii con stupore il cielo, meno scuro della terra, e la luna, piena, luminosa. E fu quella notte che rividi Marcoffio, che era sempre rimasto lì, triste, a guardarmi dalla luna.

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