09 marzo 2012

Zinédine Zidane

Il semaforo è rosso per i pedoni, ed un papà tiene suo figlio per mano.
Il bambino ha una bellissima divisa del Milan e lucide scarpe, fresche del manto erboso di un freddo inizio di Marzo. Ieri sera sua maestà Leo Messi ha segnato cinque gol ai malcapitati del Bayern Leverkusen negli ottavi di finale della Coppa dei Campioni.
"Pensa", dice il padre al figlio, "che persino Gerd Muller, uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi, era riuscito a segnarne solamente quattro in una partita". 
Non si accorgono delle mie mani nere che stringono il manubrio della bicicletta, i piedi pronti a guizzare sui pedali non appena il semaforo diventerà verde.

Io mi ricordo, ed è un ricordo bellissimo, che lo sconosciuto Salenko, centravanti dell'Urss, aveva infilato cinque pappine al Camerun nel girone di qualificazione dei mondiali. Era riuscito a diventare capocannoniere di quel campionato insieme al figlio di Dio bulgaro.

Mi volto, e li guardo sparire lentamente, percorrendo a tutta velocità Via Unione Sovietica, beffardamente invasa di ristoranti cinesi.

Mi svesto della corazza e faccio la mia quotidiana analisi dei danni, prendendo nota della progressione della marciscenza. Sotto la barba folta la pelle del viso annerisce, così come le orecchie, le mani ed i piedi, che ormai appaiono come indistinguibili parti putride e moriture. 

Completamente nudo mi accuccio in posizione fetale sotto il getto bollente della doccia, mentre con la spazzola ferrata cerco di rimuovere un po' di squame dalla pelle. E' un'operazione insopportabilmente dolorosa ma necessaria per evitare di svegliarmi domattina coperto da un infame vello di croste.

Solo la pancia, orribilmente sproporzionata su un corpo prematuramente vecchio, appare tronfia e violacea.

I pochi medici che hanno voluto azzardare una diagnosi sostengono si tratti di una sindrome rarissima, che colpisce solamente pochi alcolisti al mondo. E' come una decomposizione prematura del corpo.
Morte dell'anima, la chiamo io. 
Se l'anima muore, il corpo non può sopravvivere.

Lavato e spazzolato, immerso nella mia reclusione blindata, posso finalmente attaccarmi ad una bottiglia di vino economico. Ogni sorso che butto giù, posso sentire il mio esofago rattrappirsi inesorabilmente, i miei reni spurgare, e le mie unghie cadere.
Sono solo le nove, sono completamente ubriaco, e decido di mettermi a letto.
Come ogni sera, prima di cadere nel consueto sonno granitico, non riposante, senza sogni, sfoglio l'album di fotografie.
Un garofano bianco per dirti che mai potrò trovare una persona come te.
Un iris giallo per la passione che tu scaturisci in me.
Un delfino blu simbolo della serenità tu sai darmi, del sole che vedo nei tuoi occhi e nel tuo sorriso.
Prima di spegnermi, riesco ancora a ridere amaramente di me stesso.
Vorrei ammazzarmi, ma ho la sensazione che questo sia comunque l'ultimo giorno della mia vita.

Dormo. Dormo. Dormo. 
Dormo per giorni interi, tengo il telefono cellulare spento, così che i miei datori di lavoro non possano chiamarmi e chiedermi "dove cazzo sei". Forse avranno già preparato la lettera di licenziamento, o pensato che io sia morto.
A volte ho la sensazione di essere sveglio, e mi accorgo di avere una febbre altissima.
Non riesco neppure a muovere un dito.
Il mio corpo spurga, le coperte sono nere come la mia anima morta.
Poi mi riaddormento come un sasso.

Dopo una settimana i miei genitori suonano al campanello. 
So che sono loro perché da mesi nessun altro più mi rivolge la parola.
Suonano e battono ripetutamente, e credo chiameranno i pompieri se non mi sbrigo a dare un segno di vita.
Raduno tutte le mie energie, mi alzo e mi avvicino alla porta senza aprirla.
"Sto bene, datemi solo qualche giorno per rimettermi in sesto".
La testa mi gira violentemente e pur sentendo lo stomaco in fiamme non ho il coraggio di avvicinarmi alle merendine, o al frigo pieno di bottiglie.

Passano altri giorni immobili, interminabili.
Finché un ignoto impulso elettrico riattiva nuovamente il mio cervello.
Mi alzo di scatto, con le gambe e la schiena terribilmente indolenzite. Mi volto verso il letto ed un conato di vomito mi assale, mi sono pisciato addosso per giorni, l'odore è insopportabile.
Dopo una doccia trovo la forza di guardarmi allo specchio per la prima volta dopo oltre dieci giorni.
E' tutto passato, non sto più marcendo, non ho più croste né putrescenze, la mia vecchia pelle giace senza vita sulle lenzuola e sul fondo della vasca da bagno.
La mia pelle sembra nuova e splendida, i miei occhi vivi.
E' mattino, fuori, una gran luce.

Oggi metterò un abito buono, passerò in ufficio a prendere le mie cose ed a salutare i colleghi.
Farò un giro di librerie a comprare qualche copia del mio primo libro, anche se non sarebbe necessario, dato il grande successo di vendite.
Con i soldi voglio comprare una casa isolata in montagna, o magari in Argentina. 
Ora che posso, ora che sono uno scrittore vero.
Finalmente non devo più sedermi ad una scrivania e rispondere al telefono, chiavare donne mediocri, condividere i miei pensieri con finti amici artistoidi, che compensano la loro assoluta mancanza di talento attraverso costose reflex o altrettanto costosi corsi di canto, abbruttirmi col vino scadente per dimenticare le giornate trascorse e l'aver perso l'unica persona che amo.
Potrò permettermi di non scrivere mai più uno di quei disgustosi messaggini sul cellulare.
Fare la spesa negli ipermercati.

Cammino tronfio, certo di essere un superuomo, figlio della metamorfosi da larva a farfalla.
Nel parco metto un piede sui resti di un piccione sfracellato, calpestato da innumerevoli biciclette.
Le sue interiora viscide hanno la stessa consistenza della mia pelle.
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