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17 dicembre 2010
Carne e grasso che muore
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21 settembre 2010
L’ultima notte della Motonave Fortuna
17 settembre 2010
Arrivederci Amore Ciao
16 luglio 2010
C'era la luna e avevi gli occhi stanchi [parte II]
16 giugno 2010
Le tue lettere hanno occhi
15 giugno 2010
Turbinare di insetti
01 giugno 2010
I treni all'alba
Le carrozze coperte di brina sono quasi tutte vuote, solo qualche sonnolento passeggero sfoglia le pagine rosa del quotidiano sportivo. Tra poco il treno ripartirà, scrollandosi di dosso la brina della lunga notte, le centinaia di chilometri divorati nel buio.
Il macchinista si affaccia al finestrino, un fazzoletto sventola sul marciapiede come segnale convenzionale.
Papà nella divisa blu delle ferrovie. Dal distributore bordeaux mi comprava il wafer Bovolino coperto di cioccolato, mia mamma non voleva. Poi stavo con lui nella stazione merci, a guardare gli scatoloni enormi chiusi con lo spago e i piombini, a giocare coi timbri ed i registri ferroviari pesanti e impolverati.
Vorrei essere come i treni all’alba, che si immergono nella luce nascente del giorno nuovo, e scompaiono dalla vista nel riflesso del sole sulle rotaie.
I nomi dei posti sconosciuti che papà scandiva con voce forte nell’altoparlante.
I luoghi dove i treni non fermano mai.
28 maggio 2010
Diluvio
La pioggia cominciò nel pomeriggio di Giovedì.
Al mattino era bellissimo, ma poi, usciti per pranzo, in coda per un panino del giorno prima brulicante di animali massacrati, avevamo osservato i nembi bassi e plumbei radunarsi minacciosi sul mare. Le nubi più nere che avessimo mai visto.
L'aria ferma, pesante, concentrata sotto le nostre camicie inzuppate.
Sulle autostrade vacanziere si consumava il massacro dei moscerini, la cui unica piccola rivincita erano gli autotreni ribaltati, le auto accartocciate e le lamiere gocciolanti.
Passeggiavamo saltando dall'ombra di un palazzo all'altra, quasi come se le zone esposte al sole potessero fulminarci all'istante. Da bambini camminavamo solo sulle mattonelle colorate, per non precipitare nel baratro delle mattonelle bianche.
In questo esercizio sono stati vinti diecimila euro. Osservai Iannelli nel suo quotidiano grattare con una moneta da pochi centesimi un potenziale biglietto milionario. Niente. Erano soldi. Poi brandelli di cartaccia sul lastricato. Chissà quali underwriters sono esposti al rischio della piattaforma petrolifera, chissà che incidenza avrà sulle future pollution clauses.
Venimmo superati da una scolaresca di nani quarantenni che sboccatamente seguivano ed idolatravano le calze a rete della maestra, strappate in più punti, la quale avanzava orgogliosa in cima alla fila con incedere puttanesco. Non erano mai stati bambini, erano nati quarantenni, con i loro telefoni cellulari multimediali, i discorsi seri, ed i sensi di colpa. Sfogarono un po' di odio prendendo a calci un extracomunitario morto e putrefacente, lasciato lì dalla pigrizia degli spazzini e dall'indifferenza dei passanti.
Il mio stomaco non era pronto a tanta violenza in pausa pranzo, e quasi vomitai il sangue fresco ingerito, sulla camicia con le iniziali ricamate di Iannelli. Riuscii a ricacciare il vomito in gola, sentendo un sapore acre sulla lingua. Guarda là! C'é Benvisto, responsabile della Marshh. Mi sta sul cazzo, sa tutto lui. Che poi solo i raccomandati lavorano in Marshh.
Passammo davanti al mimo, impegnato nella preparazione di uno schizzetto da spararsi in vena, mentre il cane impagliato lo guardava con occhi supplichevoli.
Ci parve di percepire un violino lontano. Qualche zingaro all'ombra del sottopassaggio. Avvicinandoci riconoscemmo il motivetto di Love Story.
Sto per morire pensai.
A confermarmelo c'erano le montagne di spazzatura, l'odore di putrefazione delle persone per strada, il dolore lancinante di ogni passo verso la cella di detenzione alla fine dell'ora d'aria. Null'altro che topi.
Poi le prime gocce, sulla spalla, la mia camicia azzurra di lino leggero, improvvisamente si macchiò di nero.
La pioggia, il diluvio di acqua scura.
Quel giorno piovve petrolio. E i tuoni, gli incendi nel cielo.
Piovve per giorni e giorni, finché tutto divenne nero, come le nostre anime, e morto, come già eravamo senza saperlo, nonostante il respiro.
Passarono i giorni, decisi di uscire e camminai nella città deserta.
Il piazzale della grande stazione abbandonata. Di fronte i due grattacieli completamente neri.
Guardai in alto dove un tempo c'era la gigantesca pubblicità del tonno ed il grande orologio e termometro digitale.
Nello spazio vuoto tra le due torri scoprii con stupore il cielo, meno scuro della terra, e la luna, piena, luminosa. E fu quella notte che rividi Marcoffio, che era sempre rimasto lì, triste, a guardarmi dalla luna.
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01 aprile 2010
Come un cerchio che si chiude
05 marzo 2010
Stanze vuote
Stupida troia, avrei voglia di dirle, sempre DOPO aver scopato eh?
Niente di nuovo sul fronte occidentale, non sarà la prima ma spero sia l'ultima di questa serie.
Continua a parlare completamente a vanvera, come uno di quei navigatori satellitari che hanno perso il gps e non riescono più a dare un senso alla loro esistenza.
Ho bisogno di stare un po' da sola, capire qual'é la mia strada, cosa voglio e tu hai molti più anni di me, non so mi sembra sbagliato.
E per me è come in quella canzone dei Massimo Volume.
Inizio a pensare al modo in cui a volte le cose vanno, a come tutto possa esplodere all'improvviso e non resta altro che guardare i disegni sulle mattonelle del pavimento.
"vorrei un paio di stivali proprio come quelli di John Wayne".
Metto su la moka, la sua coinquilina viene fuori dall'altra stanza in mutandine e reggiseno, mi vede pensieroso e mi offre una delle sue sigarette.
Non è imbarazzata, ho fatto più volte la doccia nel suo bagno negli ultimi tre mesi che all'ostello.
Mi fa "oggi mi sento di merda", dev'essere la giornata penso.
Una mattina davanti al portone dell'ostello ho visto una signora che scivolava sul marciapiede ghiacciato.
Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale.
Qualche giorno fa Bertrand mi ha praticamente costretto ad andare ad una festa.
Passeggiando verso casa abbiamo chiacchierato del più e del meno, e per quanto provi a mascherarlo credo che Bertrand un po' mi invidi.
Non è sempre stato così, ma ora è così.
Chiudiamo dentro scatole pezzi di vita andati.
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18 gennaio 2010
Quello che ero, non quello che sono
Le stazioni divorate dal buio.
Mi affacciavo ai finestrini appannati per intravedere la banchina, il cartello con il nome della città, i pochi passeggeri frettolosi verso il sottopassaggio, i movimenti sonnolenti del capostazione.
A pochi sedili di distanza una giovane donna con i capelli scuri ed il viso dolce trascorreva il tempo leggendo distrattamente un grosso libro sgualcito. Ricordo nitidamente la sua immagine.
Quando i nostri sguardi si incrociavano, lei, pudica ed imbarazzata, abbassava gli occhi sul libro.
Forse è per la divisa da Carabiniere, in borghese non mi succede mai.
Io non ho mai letto un libro in vita mia.
Ho la quinta elementare, e ai miei tempi era un titolo degno di rispetto.
Intorno a mezzanotte chiesi al capotreno quanto mancava a Rivoli, e questi, consultando meccanicamente l’orologio, prossima stazione.
Sperai che la ragazza con il viso dolce scendesse e che nessuno la attendesse sulla banchina.
Mi sarei certamente offerto di portarle il bagaglio e magari di accompagnarla fino a casa, forte della tranquillità infusa dalla divisa.
Il treno iniziò a rallentare, e lei non accennò a prepararsi. Con calma tirai giù la mia borsa militare, indossai il pesante cappotto, e lasciando lo scompartimento accennai un saluto al quale lei rispose con un sorriso e un formale buonasera.
Ricordo la nebbia ed il freddo pungente di quella notte, i miei passi decisi verso la caserma, dalla quale sarei uscito, dopo un lungo periodo, con il grado di maresciallo.
Poi, spesso, i ricordi svaniscono, tutto si fa confuso nella mia mente, come se non avessi mai vissuto.
Non so più dove sono, se nella mia stanza, se in un ospedale, se in una bara.
Io che sfrecciavo in motocicletta, con gli stivaloni militari, ora non riesco più neanche ad andare a pisciare da solo.
I miei figli parlano della malattia e del breve futuro che mi attende come se non fossi presente, come se non potessi capire più nulla. Guardo le immagini della televisione senza riuscire a seguirne il filo logico, neanche gli stupidi giochi a quiz.
Ma ogni tanto la mia anima torna a galla, come un uomo in mare nell’estrema lotta per la sopravvivenza, e mi solleva constatare che è ancora tutto sepolto dentro di me, che non sono diventato un guscio vuoto.
Le scorribande con Serra alla radiomobile. Il negozio di alimentari di mia moglie e il suo seno prosperoso. Il profumo del pane appena fatto. La terra fredda e bagnata, i mattoni della casa da costruire.
In tv una ragazza di colore canta “Monastero e’ Santa Chiara”, tendo l’orecchio, qualcosa dentro di me si smuove. Stupito, scopro di essere ancora in grado di sentire qualcosa di simile ad un’emozione.
Da fuori, è solo un sorriso inebetito.
Tutto bene allora, sono vivo.
11 gennaio 2010
Le mirabolanti avventure di Pataton il gatto
La brezza salina gli schiaffeggia i baffi belli, mentre decine di metri più in basso le onde di un mare immenso avvolgono dolcemente la murata della Prosperity.
Pataton è un gatto importante e rispettato a bordo, incubo dei topastri a caccia di delizie tra la stiva e i container.
Il marinaio cuoco, un omone dalle mani enormi e dalla voce tonante, ha addosso tutti i profumi del mondo: il mare, il fuoco, la zuppa, il sugo. Alla fine del rancio, pulisce i piatti della ciurma e ne raccoglie il consueto sontuoso banchetto di Pataton.
Un gatto cacciatore, d’altronde, merita di avere la pancia piena, dopo gli estenuanti inseguimenti negli angusti e umidi corridoi della gigantesca nave portacontainer.
Tra poche ore la Prosperity arriverà al porto libico di Marsa El Brega, dove spaventose braccia meccaniche, per ore ed ore, libereranno il ponte dall’ingombrante carico.
Pataton non vede l’ora di bighellonare per le strade della città, a caccia di miciotte affascinate dal suo scompigliato pelo salino, e dalle appassionanti avventure marine che nessun altro gatto al mondo sa raccontare come lui.
Una volta, anni prima, in un lontano porto della Patagonia, il nero gattone dall’occhio di ghiaccio conobbe una gattina davvero affascinante, quasi una tigrotta! , e se ne innamorò perdutamente. Scorazzarono insieme per la piccola città per due giorni e due notti, e si scambiarono promesse d’amore alla luce della stupenda luna del sud del mondo.
Ma, quando la nave aveva già i motori accesi, e si apprestava a salpare, Pataton sentì l’incontrollabile richiamo del mare e dell’avventura. Silenzioso, uscì dalla cuccia di fortuna fatta di reti da pesca abbandonate, lanciò un ultimo sguardo alla sua amata tigrotta addormentata, e corse via come il vento.
Quella notte l'oceano spazzò il ponte come mai aveva visto prima. Onde alte come palazzi inghiottivano la nave per poi sputarla fuori come se fosse una minuscola lisca di pesce ingoiata per sbaglio. Pataton pensò alla sua tigrotta abbandonata, risvegliatasi sola e turlupinata dalle sue promesse, e si sentì triste: salì in coperta nella notte burrascosa, e promise alla luna che non si sarebbe innamorato mai più.
Perché Pataton è un gatto di mare, e il gatto di mare è fatto per essere solo, sempre in viaggio da una parte all’altra del mondo, con i baffi spazzati dalla brezza marina, il pelo salino, amico di uomini barbuti e dalle mani forti, libero come un gabbiano o un balenottero nell’oceano.
Ogni tanto il marinaio cuoco dalla voce tonante gli dice “un giorno, quando saremo stanchi, verrai a casa con me a Novosibirsk”. Pataton fa le fusa, inarca la schiena e si fa carezzare, lasciando credere all’omone che le cose andranno così.
Ma il gatto ha già una padrona, una ragazza dolce dagli occhi tristi, e un giorno tornerà da lei, a raccontarle le sue avventure, e si farà perdonare per essere scappato così, di punto in bianco, alla ricerca dei confini del mondo.
- Quindi un giorno rivedremo Pataton, papà?
- Ma certo piccolo! Alla fine delle sue strabilianti avventure tornerà qui, e dormirà sulla pancia della mamma, come se non fosse passato neanche un giorno da allora.
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