17 dicembre 2010

Carne e grasso che muore

Ero schiacciato sul 17 e ad un certo punto inizio a sentire puzza, come di quei formaggi odorosi che dimentichi nel portaformaggi in frigo per settimane.
La gente si apre a capannello con il volto scandalizzato e disgustato. Non sento le voci perché in quel momento ho le cuffie ed ascolto i Godspeed You! Black Emperor a volume molto alto.
Cerco di capire da dove proviene, ed in un istante individuo uno che con un asciugamano o una sciarpa prova maldestramente a pulirsi il culo attraverso i pantaloni.
Il tizio si è cagato addosso, e piange, il volto deformato dalla vergogna, e prova a dire delle parole incomprensibili ma si vede che è down.
L'autobus si ferma, l'autista fa scendere tutti, le persone come automi obbediscono.
Io ed altri tre tizi restiamo lì impietriti a guardare la scena, indecisi, poi scendiamo pure noi.
Restano su solo il mongoloide e l'autista.
Sotto i miei piedi c'é una lercia banchina di cemento di Corso Europa, un vento che gela le orecchie e fa cascare le mani.
Non so che fare, guardo il cellulare nervosamente, guardo l'ora, lo rimetto in tasca, lo ritiro fuori sblocco i tasti e lo rimetto in tasca di nuovo. Ho nelle narici l'odore di marcio, lo sento in bocca.
Rivedo la scena, ed ho una fitta di dolore così forte che scoppierei a piangere.
Mi vergogno profondamente di provare pena.
Il dolore di quella visione mi fa pensare alla morte.
i disegni e i progetti sono la smorfia di umiliazione di un essere umano che si caga addosso su un pullman affollato.
Penso alla morte ed a quanto siamo solamente carne e grasso che muore.
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21 settembre 2010

L’ultima notte della Motonave Fortuna

Atti di Dio, li chiamano.
Quando persino questo colosso di ferro, che sulla terra apparirebbe come il più stupefacente dei prodigi, si manifesta per quello che è: un giocattolo in balia di forze mostruose ed incontenibili.
I più giovani restano agghiacciati, impietriti, negli interminabili attimi in cui la gigantesca prua viene inghiottita dal nero.
Gli altri, noi, distratti, scollegati, consapevoli che questo è l’oceano e che non esiste, né oggi, né mai, alcun portento umano in grado di domarlo inesorabilmente al proprio volere.
Il capitano, dall’alto del suo palazzo, osserva impotente il carico liberarsi agevolmente dal rizzaggio, basculare libero sul ponte, scomparire oltre la poderosa murata.
Il primo ufficiale è in attesa, e con lui il marconista: a breve verrà invocata l’avaria.

L’imprevista tempesta infuria, infausta come il destino, sulla nave lontana da qualunque porto sicuro.
Ed è per questo che la gente di mare non lo chiama mai viaggio, ma avventura marittima.
Persino io, che di libri nella vita ne ho letti pochi, lo so.
So che nel nostro mondo ogni cosa porta il suo giusto nome.

Forse il sole splenderà nuovamente, le onde si faranno docili e silenziose, il cielo apparirà talmente azzurro da sembrare finto, colorato da un bambino con i suoi pastelli a cera.
Forse vedremo apparire un porto, con sollievo, e i ragazzi saranno meno giovani, perché sulla nave la pelle si indurisce più in fretta.
Saranno tante le notti come questa anche per loro.
Salirà a bordo il pilota e ci guiderà all’attracco.

Domani solerti giovani avvocati dai nomi altisonanti, solicitors, adjusters, passeranno ore ed ore a fare conti, a consultare i loro sacri codici, inchiodati a scintillanti scrivanie.
Discuteranno forbitamente citando notevoli precedenti dei secoli passati, per comprendere se si trattasse o meno di un atto di Dio.

Come se Dio lasciasse la firma sulle sue opere.
Sono le persone, coi piedi ben piantati sulla terra, a credere di poter codificare e controllare gli eventi.
Cieche davanti all’anima dei sassi, sorde alla voce dello spirito che pervade il tutto.

A noi resta la certezza del mistero, la facoltà di amare il mare come la vita, consci della nostra impotenza nel fortunale.
A noi resta la luminosa speranza riposta in questa bellissima nave arrugginita e coraggiosa, il cui nome è lo stesso del fato.
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17 settembre 2010

Arrivederci Amore Ciao

Ho deciso che il suo nome è Adele e che io sono una stanza vuota.
Ci sono sempre reti del letto abbandonate sul ciglio delle strade di periferia, e televisori rotti.

Immagino Adele cercare libri sui vecchi scaffali delle biblioteche, e sceglierne uno solamente perché l’ultimo lettore ha un nome che le ricorda qualche uomo stanco osservato in un caffé, o perché è passato troppo tempo, come se anche le pagine avessero un’anima.

La maniglia della porta è svitata e di notte scende, a volte lentamente a volte in fretta, come sotto l’azione di una mano inesistente.
Spaventa, come lo stock! delle bottiglie di plastica durante il dormiveglia.
Ma se non dormo uccido il tempo fissando i cassonetti, in attesa che il fantasma delle cose morte passi a salvarle, a dar loro nuova vita.
Da qualche parte c’è qualcuno che aggiusta le sedie rotte.
Come in un sogno la luce lampeggiante che si stampa sul soffitto alle sei di mattina mi conferma che si, è veramente finita.

Ho deciso che il suo nome è Adele perché è di una bellezza non spigolosa ma dolce, e perché i suoi occhi grandi sembrano sempre tristi, o stanchi.
Che è vero che non si è vivi se non si è qualcosa per qualcuno all’inizio di un nuovo giorno.
Che esistiamo in funzione delle parole sottolineate, della meraviglia di essere importanti.
E che non si può essere felici senza un magnifico progetto a cui dedicarsi.

L’indifferenza è il prezzo da pagare per poter essere invisibili, e comunque è di certo la malattia di tutti i cosmonauti in viaggio.
Io, ad esempio, tanto tempo fa ero a bravo a raccontare storie di persone semplicemente fissandole ad un tavolo del ristorante o nello scompartimento del treno.
Ma non sono un cosmonauta, sono una stanza vuota, fatta della stessa sostanza dell’istante tra l’arrivo dell’ascensore al piano e l’aprirsi delle porte, della stessa ansia di proiettarsi fuori per sfuggire agli sguardi e al silenzio imbarazzato.

Adele apre la porta di casa e ad attenderla c’è un gatto nero ed antichi manuali sull’occulto.
Non ha un soffitto e sa leggere le stelle: puntando il dito su una a caso di esse pianificherà come arrivarci, ed io la amo molto per questo.
Mi dispiace non essere abbastanza, essere troppo poco, dovermi mascherare da lampione o da cassetta delle lettere, quando la incontro in una strada affollata.
Nei giorni buoni, quando vedo i treni passare, aspettando quello dopo che di certo sarà meno affollato, mi dico che, in fondo, è tutta colpa della sfortuna.
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16 luglio 2010

C'era la luna e avevi gli occhi stanchi [parte II]

Abbiamo la vita davanti, e la morte, pensò Giuseppe guardando la strada deserta.
Stella era al suo fianco, silenziosa.
Ammirarono in lontananza gli strani effetti creati dal calore sul bitume bollente.
Il mondo, a distanza di poche decine di metri, diventava incerto e traballante.

Erano le ultime ore insieme, ma avevano deciso di fingere che tutto fosse normale, come nei pomeriggi in cui passeggiavano per le campagne per andare a nuotare nel fiume: giorni d'estate in cui le parole ieri e domani rappresentavano concetti vuoti. Tutto era lì, tangibile, immediato, riflesso nell'acqua freddissima che scorre lentamente, nel guizzare visibile dei pesci, così vicini che a volte sembrava quasi di poterli acchiappare.

Giuseppe vide all'angolo della strada i travestiti, e decise di girare al largo.
Spesso tiravano calci ai passanti quando erano di cattivo umore.
Altre volte erano più gentili, ma non quando faceva così caldo.

Accelerarono un po' il passo, attraversando il cimitero dei camion.
Stella era affascinata da quel posto lugubre ed al tempo stesso magico, dove giacevano, immobili da secoli, le carcasse dei giganti trattori, gli scheletri dei lunghissimi rimorchi che sembravano relitti di navi o balene arenate sulla battigia.
Lui pensò di nuovo, malinconico, "presto sarò come loro, svuotato dell'anima".

"Sei stanco Giuseppe?", disse Stella, preoccupata per il suo amore che respirava visibilmente a fatica.
"No Stella, andiamo avanti, ci siamo quasi dai".

Ed arrivarono al faro.
In lontananza la spiaggia dei turisti, ancora affollata nonostante fosse quasi ora di cena.
Non si capiva dove iniziasse una persona e finisse un'altra, come un tappeto di otarie ammucchiate su uno scoglio.
Giuseppe amava guardare il mare sbattere con forza sulle pietrone alla base del faro, con un'energia tale da consumare lentamente la roccia.

Non c'era più niente da dirsi, sapevano tutto l'uno dell'altra.
Non restava altro da fare che vivere intensamente quegli ultimi momenti insieme, respirare l'aria con ingordigia, nutrire gli occhi con il cielo sereno, abbuffarsi del profumo del mare.
Il sontuoso banchetto dell'universo.

Attesero la sera.
Il fresco, le luci della città in lontananza e le stelle sopra di loro.
Giuseppe sentì il respiro sempre più affannoso, ma volse lo sguardo verso Stella, che si era dolcemente addormentata al suo fianco, e si tranquillizzò.
La luce tremula della luna sul mare la rendeva ancora più bella, e lui nutrì ancora un po' la propria anima di lei, della sua immagine, della sensazione del contatto.
L'avrebbe portata con sé, ovunque sarebbe andato.
Ormai era pronto per il suo viaggio.

Il mattino successivo avrebbe salutato la mamma, che avrebbe pianto di sicuro.
Ma lui sarebbe stato forte, dicendo addio come si conviene.
Con una bella leccata, con l'entusiasmo di quando era un cucciolo, un'infinità di tempo prima.

Poi sarebbe salito in macchina con papà, e nel parcheggio si sarebbero detti "ciao" da amici, da fratelli, da uomini, da compagni di viaggio.

E Giuseppe sarebbe stato sereno, sul lettino immacolato del veterinario.
Pensando alla sua Stella, nell'attimo in cui una piccola puntura avrebbe addormentato per sempre il più bel cane della città.

ps. Parte II, perché c'era la luna e avevi gli occhi stanchi in principio non era un racconto.
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16 giugno 2010

Le tue lettere hanno occhi

Arianna,
Le tue lettere hanno occhi, che sembrano scrutarmi nel profondo.
Hanno mani che mi schiaffeggiano e labbra per sussurrare.
Le tue lettere sono come vergate di fiamma sulla mia schiena nuda.
Le mie invece sono fatte solo di intenzioni.
Di parole che rimangono parole.
Daniel

Daniel,
Io mi sentivo morire dentro.
Al tavolo solo tre argomenti.
Uno. Calcio.
Due. Film brutti e telefilm sul satellite
Tre. Serate degli anni novanta, quando eravamo più giovani e più stupidi
Nessuno dei tre argomenti mi interessava minimamente.
Frullati in maniera uniforme nella serata, ma ehi, la regola era toccare almeno una volta tutti e tre i punti.
Io sapevo perfettamente chi avrebbe detto cosa e quando.
Li aspettavo al varco e puntualmente “bang!” qualcuno cascava in trappola.
A volte malignamente servivo loro assist ad hoc per vedere fino a che punto si rendessero conto di ripetere sempre le stesse cose come automi.
Non se ne rendevano conto però.
Tua.

Ari,
La prevedibilità e la mediocrità sono le malattie della mia generazione.
L’attesa di qualcosa, il deserto dei tartari.
E’ come in quei film di zombie che mi piacciono tanto.
C’è questa donna che vedo ogni sera con gli amici.
Diosanto quanto mi dà fastidio la sua voce.
La sua non femminilità. Le sue locuzioni dialettali.
Come posso anche lontanamente aver pensato di scoparmela?
La nostra morte coinciderà con il momento in cui non ci accorgeremo di essere diventati mediocri, di esserci mischiati con i mediocri di professione.
Ci proviamo almeno? Dimmi di si.
Dormi bene.

Buongiorno a te,
stamattina vestendomi ho pensato che siamo tutti simili ai blocchi di partenza.
E’ lungo la strada che decidiamo in negativo.
Solo questo sappiamo, no?
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Arianna,
sai forse io sono ciò non voglio e me ne rendo conto.
Non mento a me stesso e agli altri, spacciandomi per uno stabile.
Ho dei continui sbalzi di umore.
Non mi piaccio.
E a volte mi odio.

Daniel,
c’è una linea netta tracciata sulla nostra anima.
Non si può saltellare da una parte all’altra di essa senza pagarne lo scotto.
Bisogna prendere posizione, decidere da che parte stare.
Ciao

Ari,
il tuo nome parla di purezza, contiene un elemento.
Il mio elemento sarebbe il fuoco invece.
Ho sempre voglia di distruggere tutto.
Di strapparmi via gli occhi.
Oggi credo proprio che lo farò.
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15 giugno 2010

Turbinare di insetti

Il giochetto è sempre lo stesso.
Prendono un cane randagio, lo legano con una corda al gancio traino della vecchia station wagon ed iniziano ad andare. Prima piano, poi sempre più forte, finché la povera bestia, stremata, non comincia a sbattere ai bordi della strada come un pupazzo.
All’interno della macchina i due urlano di sadico divertimento, passandosi la bottiglia di amaro del discount.
Matilde, sul sedile di dietro, non ne può più, soprattutto di lui.

Quando le era apparso sul bordo della piscina, mesi prima, nell’estate afosa ed insopportabile della pianura, aveva sentito un brivido che da tempo non provava. Il brivido dell’attrazione fisica, della voglia di posare le mani su quel corpo asciutto e muscoloso, di farsi scopare con impeto da quel pezzo di carne così perfettamente armonioso.
Matilde non provava una sensazione simile da molto tempo, e sebbene tentasse di resisterle, era conscia di quanto questa fosse impetuosa. Lei, sempre considerata così sensibile, sempre trattata con i guanti come fosse qualcosa di fragile, aveva voglia di fare un po' la puttana. La sensazione cresceva giorno dopo giorno, la sentiva nello stomaco, nella vagina, sulla pelle, finché lui non si accorse dei suoi sguardi sempre più intensi e carichi di desiderio.
Non era un grande parlatore, ma in quel momento per Matilde era l’ultima cosa che contava.
Il passo dal bordo della piscina, ai sedili lerci della station wagon fu schifosamente breve.

La passione era diventata incontrollabile, e sebbene si sentisse sporca, laida, Matilde aveva finito per lasciare quello che era stato il suo ragazzo dagli anni del liceo, studente in medicina, per il giovane bagnino.
Il bagnino era un perfetto mediocre. Privo di cultura, di passione per qualunque forma d’arte, di prospettive per il futuro. Incapace di ascoltarla e di comprenderla, con le sue soluzioni semplicistiche a tutto.
Il suo unico motto era tenere l’uccello dritto ed aspettare qualche occasione, e nel frattempo spassarsela e scopare fighette stupide. Non gli sembrava vero di poter infilare il cazzo in quella ragazza così diversa da tutte le altre, complicata ed introversa, intelligente e studiosa.
Da un lato in compagnia di lei si sentiva migliore degli altri, dei suoi amici meccanici, imbianchini, operai alla raffineria, sempre in giro con delle fighe mediocri, commesse di negozi, pescivendole puzzolenti, madri di famiglia in crisi di mezza età. Dall’altro aveva la sensazione che non capiva fino in fondo di appartenere ad una razza inferiore, di non meritarsi quella donna, e finiva per sfogare la sua rabbia scopandola male, nel culo, con rabbia.

L’estate era trascorsa in fretta, tra la piscina e le chiavate sul cofano e sui sedili inzuppati di sudore, nei parcheggi dei tir, tra le zanzare.
Poi l’autunno, e le fredde serate della pianura. L’aut aut del clima, o caldissimo, o freddissimo.
Passavano le serate in compagnia di Billo, un rozzo apprendista idraulico amante delle risse, vagando su e giù per le strade di campagna, bevendo alcolici da quattro soldi ed ascoltando dischi da hit parade.
Ogni tanto partiva il gioco del cane, o la caccia al barbone, poi tappa al solito pub lercio.

Billo scendeva per primo, loro due chiavavano velocemente nel parcheggio, e quando lui finiva accendeva una sigaretta e raggiungeva l’amico, lasciandola a pulirsi di dosso lo sperma con delle salviettine.
Nel pub loro continuavano a bere, insieme ai soliti quattro amici gretti, parlando di poche cose, dei soliti film, facendo le solite battute, quasi senza niente da dirsi, solo per combattere la noia.

Finché una sera al bancone del pub c’é il giovane medico seduto insieme ad un amico, sorseggiando una birra. Matilde prova ad incrociare il suo sguardo, un tempo dolce, diventato ormai terribilmente severo. Lui alza la testa dal bicchiere, e contraccambia il suo sguardo con disgusto, prima di ritornare a conversare affabilmente con il suo interlocutore.
Lei desidererebbe sparire, tornare bambina e chiudersi nella sua cameretta, a strafogarsi di cioccolata.

Il bagnino si è accorto di tutto ciò. E’ stupido e ottuso, ma gli occhi tremanti di lei non lasciano spazio all’interpretazione. Le avrebbe presentato il conto al momento debito.
Dopo l’ennesima birra tiepida propone a Billo di andare a fare un giro.

Poi il cane randagio che nel giro di pochi chilometri si trasforma in un pupazzo inerme e sanguinante.
Matilde ormai ha capito, è stato tutto uno sbaglio.
Avrebbe voglia di rompere la testa sul cruscotto ad entrambi.
ferma la macchina testa di cazzo, voglio scendere”.
Il bagnino e Billo si guardano divertiti e completamente sbronzi.
La station wagon infila uno sterrato e si ferma.
Il bagnino scende, barcollando, e trascina fuori dall’auto Matilde tirandola per i capelli.
cagna schifosa, lurida troia, cos’è vuoi tornare dal tuo dottorino?” e le allunga un ceffone col dorso della mano che la sbatte immediatamente al suolo.
Il cervello di Matilde ha delle fitte, come se questa cosa non stesse accadendo per davvero.
Eppure il sangue che le esce copioso dal naso imbrattandole la maglietta è suo.
adesso ce la spassiamo un po’ ”, dice il bagnino mentre Billo si slaccia i pantaloni.
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01 giugno 2010

I treni all'alba

Il capotreno fuma una sigaretta sulla banchina, dando un’occhiata svogliata all’orologio.
Le carrozze coperte di brina sono quasi tutte vuote, solo qualche sonnolento passeggero sfoglia le pagine rosa del quotidiano sportivo. Tra poco il treno ripartirà, scrollandosi di dosso la brina della lunga notte, le centinaia di chilometri divorati nel buio.
Il macchinista si affaccia al finestrino, un fazzoletto sventola sul marciapiede come segnale convenzionale.

Papà nella divisa blu delle ferrovie. Dal distributore bordeaux mi comprava il wafer Bovolino coperto di cioccolato, mia mamma non voleva. Poi stavo con lui nella stazione merci, a guardare gli scatoloni enormi chiusi con lo spago e i piombini, a giocare coi timbri ed i registri ferroviari pesanti e impolverati.

Vorrei essere come i treni all’alba, che si immergono nella luce nascente del giorno nuovo, e scompaiono dalla vista nel riflesso del sole sulle rotaie.

Forse invece i nostri sogni sono i treni che non abbiamo preso.
I nomi dei posti sconosciuti che papà scandiva con voce forte nell’altoparlante.
I luoghi dove i treni non fermano mai.

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28 maggio 2010

Diluvio

La pioggia cominciò nel pomeriggio di Giovedì.

Al mattino era bellissimo, ma poi, usciti per pranzo, in coda per un panino del giorno prima brulicante di animali massacrati, avevamo osservato i nembi bassi e plumbei radunarsi minacciosi sul mare. Le nubi più nere che avessimo mai visto.

L'aria ferma, pesante, concentrata sotto le nostre camicie inzuppate.

Sulle autostrade vacanziere si consumava il massacro dei moscerini, la cui unica piccola rivincita erano gli autotreni ribaltati, le auto accartocciate e le lamiere gocciolanti.

Passeggiavamo saltando dall'ombra di un palazzo all'altra, quasi come se le zone esposte al sole potessero fulminarci all'istante. Da bambini camminavamo solo sulle mattonelle colorate, per non precipitare nel baratro delle mattonelle bianche.

In questo esercizio sono stati vinti diecimila euro. Osservai Iannelli nel suo quotidiano grattare con una moneta da pochi centesimi un potenziale biglietto milionario. Niente. Erano soldi. Poi brandelli di cartaccia sul lastricato. Chissà quali underwriters sono esposti al rischio della piattaforma petrolifera, chissà che incidenza avrà sulle future pollution clauses.

Venimmo superati da una scolaresca di nani quarantenni che sboccatamente seguivano ed idolatravano le calze a rete della maestra, strappate in più punti, la quale avanzava orgogliosa in cima alla fila con incedere puttanesco. Non erano mai stati bambini, erano nati quarantenni, con i loro telefoni cellulari multimediali, i discorsi seri, ed i sensi di colpa. Sfogarono un po' di odio prendendo a calci un extracomunitario morto e putrefacente, lasciato lì dalla pigrizia degli spazzini e dall'indifferenza dei passanti.

Il mio stomaco non era pronto a tanta violenza in pausa pranzo, e quasi vomitai il sangue fresco ingerito, sulla camicia con le iniziali ricamate di Iannelli. Riuscii a ricacciare il vomito in gola, sentendo un sapore acre sulla lingua. Guarda là! C'é Benvisto, responsabile della Marshh. Mi sta sul cazzo, sa tutto lui. Che poi solo i raccomandati lavorano in Marshh.

Passammo davanti al mimo, impegnato nella preparazione di uno schizzetto da spararsi in vena, mentre il cane impagliato lo guardava con occhi supplichevoli.

Ci parve di percepire un violino lontano. Qualche zingaro all'ombra del sottopassaggio. Avvicinandoci riconoscemmo il motivetto di Love Story.

Sto per morire pensai.

A confermarmelo c'erano le montagne di spazzatura, l'odore di putrefazione delle persone per strada, il dolore lancinante di ogni passo verso la cella di detenzione alla fine dell'ora d'aria. Null'altro che topi.

Poi le prime gocce, sulla spalla, la mia camicia azzurra di lino leggero, improvvisamente si macchiò di nero.

La pioggia, il diluvio di acqua scura.

Quel giorno piovve petrolio. E i tuoni, gli incendi nel cielo.

Piovve per giorni e giorni, finché tutto divenne nero, come le nostre anime, e morto, come già eravamo senza saperlo, nonostante il respiro.

Passarono i giorni, decisi di uscire e camminai nella città deserta.

Il piazzale della grande stazione abbandonata. Di fronte i due grattacieli completamente neri.

Guardai in alto dove un tempo c'era la gigantesca pubblicità del tonno ed il grande orologio e termometro digitale.

Nello spazio vuoto tra le due torri scoprii con stupore il cielo, meno scuro della terra, e la luna, piena, luminosa. E fu quella notte che rividi Marcoffio, che era sempre rimasto lì, triste, a guardarmi dalla luna.

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01 aprile 2010

Come un cerchio che si chiude

Giulia e Jean salirono le anguste scale, spinsero la porta di legno socchiusa e lo trovarono lì, seduto.
Avevano saputo che era tornato in città da un paio di giorni, ma nessuno ancora lo aveva visto.
Pensavano avrebbe passeggiato per le vie del centro, cercato i vecchi amici, fatto colazione al piccolo bar.
Per avere notizie andarono dai suoi genitori, ormai anziani, che con fare gentile li avevano indirizzati verso l’unico posto dove, a ragion veduta, sarebbe voluto tornare.

Il salottino angusto non aveva finestre, e lui se ne stava seduto lì sull'unica sedia, dove un tempo c’era uno di quei divani economici da tanto al mucchio.
Ora solo polvere decennale, e qualche cicca di sigaretta molto recente.
Sembrava più giovane di allora, coi pochi capelli cortissimi e una barba folta che gli attribuiva un’aria da scrittore ebreo. Era ben vestito, con pantaloni di lino leggero ed una camicia di ottima fattura, con le maniche arrotolate fino al gomito.
Li vide e sorrise.

Giulia vacillò nel vederlo. Erano passati così tanti anni, il sole era sorto e tramontato migliaia di volte, tutti loro avevano vissuto, lavorato, amato, fatto figli, indipendentemente dal fatto che lui non fosse più lì.
Si dimentica facilmente.
Giulia sentì tutto il dolore di quel filo spezzato.
Anche Jean, dopo aver varcato quella soglia, un tempo così familiare, ebbe un tonfo al cuore.
Davanti a lui uno spettro proveniente da un’eternità dimenticata.
Lo spettro sorrideva, e li invitava ad entrare.

Una sigaretta finì sul pavimento, nella casa c’era solo polvere, ed una sedia.
L'ambiente era completamente disadorno, l’odore di muffa e di chiuso opponeva strenua resistenza all’aria esterna, che per anni aveva dovuto confrontarsi con l’ostacolo inamovibile delle finestre serrate, e timidamente provava ad esplorare quello spazio sconosciuto.

Lui era tornato, insieme a quella primavera ritardataria ed incerta.
Jean, Giulia, che bello vedervi”, e li abbracciò, con la semplicità di chi si è perso solo per qualche settimana.
Non potendo farli accomodare si diressero verso una delle due stanze, nei pressi della finestra aperta.
Cosa hai fatto in tutti questi anni, ogni tanto ci arrivava qualche notizia di te, ma perché non sei mai tornato, perché non ti sei mai fatto vivo, sei come.. sparito”.
Ormai nulla di quel remoto passato aveva il benché minimo significato, e neppure Jean provava più rancore, anche se a lungo aveva fantasticato su come sarebbe stato un loro incontro.
Non c’era più niente che potessi fare Giulia. Nessuno che mi aspettava. Ad un certo punto ero stanco di tutto, anche delle cose che prima amavo. Ho solamente sentito il bisogno di andare, ti sembrerà una stronzata retorica.. a cercare me stesso. Lo so, fa strano detto da me, ma le persone cambiano”.
Jean si guardava intorno, malinconico.
Ricostruiva la posizione dei mobili, e rivedeva i visi di tutti loro, insieme, lì.
Questo posto era davvero.. qualcosa”.
Già, è così no? E’ per questo che sono tornato qui, è come un cerchio che si chiude”.

Giulia pensò a quante volte aveva provato a ripercorrere chiudendo gli occhi i corridoi della scuola, il tragitto dalla classe all’uscita, rivedendo il parquet, le suore, i compagni.
Un minuto prima della campanella la maestra la mandava a vedere se le altre classi erano già uscite, le diceva “vai piccola vedetta lombarda”, quella del Libro Cuore.
Anche questo era un ricordo che quando affiorava faceva male, un altro filo spezzato, la consapevolezza di vita irrimediabilmente passata, persa.
Restarono in silenzio per qualche attimo, poi anche in lui affiorò qualcosa, il suo sorriso da sereno si fece triste.
Ti ricordi Jean quel Natale. Avevamo cenato qui tutti assieme, c’era Lidia che cucinava e cucinava e andava avanti e indietro coi piatti di plastica stracolmi e pentoloni , e poi avevamo sparato lo spumante sul muro, qualcuno aveva scosso troppo la bottiglia”.
Si mi ricordo, era stata una bella notte di Natale, c’eravamo ancora tutti”.
Quella notte, dopo cena voi andaste via e la casa era un vero merdaio. Rimanemmo soli io ed Isabelle come sempre. Lei era incredibilmente bella, incredibilmente. Invece di rassettare o andarcene a letto a fare l’amore, o uscire, facemmo qualcosa che non avevamo mai fatto e che non avremmo fatto più. C’era la musica. Ballammo stretti, come in quei film schifosi, solo che noi ridevamo ed io facevo un po’ lo scemo. Però restammo così per un po'. E’ stupido vero? Ma non passa giorno che io”.

Le persone, in fondo, esplorano il proprio piccolo universo alla ricerca di un lumicino.
Percorrono a tentoni le possibilità, come se essere vivi significhi barcamenarsi attraverso un flusso feroce ed indefinito di esperienze, volti, emozioni, che possono essere giudicate solo “col senno di poi”.
Tutto per restare aggrappati fino a spezzarsi le unghie a quel briciolo di redenzione.
Che deve essere da qualche parte. Nascosta. Dove.

Ed è per questo che la storia finisce qui.
Che non ho più niente da raccontare.
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05 marzo 2010

Stanze vuote

Comincia con lei nuda sul letto, che inizia a farneticare di mettere ordine nella sua vita, che pensa sempre al suo ex -un ragazzino- e tutto il resto, che io e la mia musica e la sicurezza dov'é, ed ho ventotto anni non posso andare avanti così devo prima capire me stessa.
Stupida troia, avrei voglia di dirle, sempre DOPO aver scopato eh?
Niente di nuovo sul fronte occidentale, non sarà la prima ma spero sia l'ultima di questa serie.

Continua a parlare completamente a vanvera, come uno di quei navigatori satellitari che hanno perso il gps e non riescono più a dare un senso alla loro esistenza.
Ho bisogno di stare un po' da sola, capire qual'é la mia strada, cosa voglio e tu hai molti più anni di me, non so mi sembra sbagliato.

E per me è come in quella canzone dei Massimo Volume.

Inizio a pensare al modo in cui a volte le cose vanno, a come tutto possa esplodere all'improvviso e non resta altro che guardare i disegni sulle mattonelle del pavimento.
"vorrei un paio di stivali proprio come quelli di John Wayne".

Metto su la moka, la sua coinquilina viene fuori dall'altra stanza in mutandine e reggiseno, mi vede pensieroso e mi offre una delle sue sigarette.

Non è imbarazzata, ho fatto più volte la doccia nel suo bagno negli ultimi tre mesi che all'ostello.
Mi fa "oggi mi sento di merda", dev'essere la giornata penso.
Raccolgo le mie tre cose, saluto la coinquilina e lascio lei a piangere nel cesso, tirando dietro di me la porta per l'ultima volta, senza sbatterla, silenziosamente.
Niente di nuovo, confermo.

Una mattina davanti al portone dell'ostello ho visto una signora che scivolava sul marciapiede ghiacciato.
Sul giornale poi hanno scritto che si era trattato di un fenomeno chiamato "ghiacciata".
Lì per lì ho riso di gusto, perché la scena è stata abbastanza comica.
Mentre un passante la aiutava a rimettersi in piedi, mi sono sentito un po' in colpa.
Ho fatto qualche passo e sono scivolato anche io.
Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale.
Poi ho riso di nuovo.

Qualche giorno fa Bertrand mi ha praticamente costretto ad andare ad una festa.
Ultimamente sono un po' pigro.
Ad essere sincero mi sono divertito, ho bevuto qualche superalcolico e guardato le signore.
Mi chiedo se sono ancora in grado di piacere alle donne.. ne dubito fortemente.
Bertrand sostiene che dovrei rimettermi in gioco, che non sono abbastanza vecchio per rinunciare a farmi una famiglia. Ha pure provato a presentarmi delle sue amiche quarantenni un po' troie.

Passeggiando verso casa abbiamo chiacchierato del più e del meno, e per quanto provi a mascherarlo credo che Bertrand un po' mi invidi.
In fondo la libertà ha un prezzo, e non tutti sono disposti a pagarlo.
Non che io abbia dovuto fare delle particolari acrobazie per accaparrarmi tutto questo.
E' bastato far andare il flusso delle cose per loro conto, ed aspettare trentotto anni per rendermi conto di essere un fallito.
Ma Bertrand non può capirlo, mi vede come uno spirito libero, sono semplicemente uno stronzo qualunque che non ha un cazzo.

Non è sempre stato così, ma ora è così.
Conservo delle calamite da frigorifero a ricordarmi di aver avuto una vita.
Ogni volta che le guardo mi sento come se mi sparassero in mezzo agli occhi.

Chiudiamo dentro scatole pezzi di vita andati.
Restano stanze vuote.
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18 gennaio 2010

Quello che ero, non quello che sono

Mi ricordo persino di un viaggio in treno, una domenica sera di oltre cinquanta anni fa.

Le stazioni divorate dal buio.
Mi affacciavo ai finestrini appannati per intravedere la banchina, il cartello con il nome della città, i pochi passeggeri frettolosi verso il sottopassaggio, i movimenti sonnolenti del capostazione.

A pochi sedili di distanza una giovane donna con i capelli scuri ed il viso dolce trascorreva il tempo leggendo distrattamente un grosso libro sgualcito. Ricordo nitidamente la sua immagine.
Quando i nostri sguardi si incrociavano, lei, pudica ed imbarazzata, abbassava gli occhi sul libro.
Forse è per la divisa da Carabiniere, in borghese non mi succede mai.

Io non ho mai letto un libro in vita mia.
Ho la quinta elementare, e ai miei tempi era un titolo degno di rispetto.

Intorno a mezzanotte chiesi al capotreno quanto mancava a Rivoli, e questi, consultando meccanicamente l’orologio, prossima stazione.
Sperai che la ragazza con il viso dolce scendesse e che nessuno la attendesse sulla banchina.

Mi sarei certamente offerto di portarle il bagaglio e magari di accompagnarla fino a casa, forte della tranquillità infusa dalla divisa.

Il treno iniziò a rallentare, e lei non accennò a prepararsi. Con calma tirai giù la mia borsa militare, indossai il pesante cappotto, e lasciando lo scompartimento accennai un saluto al quale lei rispose con un sorriso e un formale buonasera.


Ricordo la nebbia ed il freddo pungente di quella notte, i miei passi decisi verso la caserma, dalla quale sarei uscito, dopo un lungo periodo, con il grado di maresciallo.

Poi, spesso, i ricordi svaniscono, tutto si fa confuso nella mia mente, come se non avessi mai vissuto.
Non so più dove sono, se nella mia stanza, se in un ospedale, se in una bara.

Io che sfrecciavo in motocicletta, con gli stivaloni militari, ora non riesco più neanche ad andare a pisciare da solo.

I miei figli parlano della malattia e del breve futuro che mi attende come se non fossi presente, come se non potessi capire più nulla. Guardo le immagini della televisione senza riuscire a seguirne il filo logico, neanche gli stupidi giochi a quiz.

Ma ogni tanto la mia anima torna a galla, come un uomo in mare nell’estrema lotta per la sopravvivenza, e mi solleva constatare che è ancora tutto sepolto dentro di me, che non sono diventato un guscio vuoto.

Le scorribande con Serra alla radiomobile. Il negozio di alimentari di mia moglie e il suo seno prosperoso. Il profumo del pane appena fatto. La terra fredda e bagnata, i mattoni della casa da costruire.

In tv una ragazza di colore canta “Monastero e’ Santa Chiara”, tendo l’orecchio, qualcosa dentro di me si smuove. Stupito, scopro di essere ancora in grado di sentire qualcosa di simile ad un’emozione.
Da fuori, è solo un sorriso inebetito.
Tutto bene allora, sono vivo.
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11 gennaio 2010

Le mirabolanti avventure di Pataton il gatto

Volo! Dice Pataton il gatto, ritto sulla balaustra del ponte più alto della nave.
La brezza salina gli schiaffeggia i baffi belli, mentre decine di metri più in basso le onde di un mare immenso avvolgono dolcemente la murata della Prosperity.

Pataton è un gatto importante e rispettato a bordo, incubo dei topastri a caccia di delizie tra la stiva e i container.

Il marinaio cuoco, un omone dalle mani enormi e dalla voce tonante, ha addosso tutti i profumi del mondo: il mare, il fuoco, la zuppa, il sugo. Alla fine del rancio, pulisce i piatti della ciurma e ne raccoglie il consueto sontuoso banchetto di Pataton.

Un gatto cacciatore, d’altronde, merita di avere la pancia piena, dopo gli estenuanti inseguimenti negli angusti e umidi corridoi della gigantesca nave portacontainer.

Tra poche ore la Prosperity arriverà al porto libico di Marsa El Brega, dove spaventose braccia meccaniche, per ore ed ore, libereranno il ponte dall’ingombrante carico.
Pataton non vede l’ora di bighellonare per le strade della città, a caccia di miciotte affascinate dal suo scompigliato pelo salino, e dalle appassionanti avventure marine che nessun altro gatto al mondo sa raccontare come lui.

Una volta, anni prima, in un lontano porto della Patagonia, il nero gattone dall’occhio di ghiaccio conobbe una gattina davvero affascinante, quasi una tigrotta! , e se ne innamorò perdutamente. Scorazzarono insieme per la piccola città per due giorni e due notti, e si scambiarono promesse d’amore alla luce della stupenda luna del sud del mondo.

Ma, quando la nave aveva già i motori accesi, e si apprestava a salpare, Pataton sentì l’incontrollabile richiamo del mare e dell’avventura. Silenzioso, uscì dalla cuccia di fortuna fatta di reti da pesca abbandonate, lanciò un ultimo sguardo alla sua amata tigrotta addormentata, e corse via come il vento.

Quella notte l'oceano spazzò il ponte come mai aveva visto prima. Onde alte come palazzi inghiottivano la nave per poi sputarla fuori come se fosse una minuscola lisca di pesce ingoiata per sbaglio. Pataton pensò alla sua tigrotta abbandonata, risvegliatasi sola e turlupinata dalle sue promesse, e si sentì triste: salì in coperta nella notte burrascosa, e promise alla luna che non si sarebbe innamorato mai più.

Perché Pataton è un gatto di mare, e il gatto di mare è fatto per essere solo, sempre in viaggio da una parte all’altra del mondo, con i baffi spazzati dalla brezza marina, il pelo salino, amico di uomini barbuti e dalle mani forti, libero come un gabbiano o un balenottero nell’oceano.

Ogni tanto il marinaio cuoco dalla voce tonante gli dice “un giorno, quando saremo stanchi, verrai a casa con me a Novosibirsk”. Pataton fa le fusa, inarca la schiena e si fa carezzare, lasciando credere all’omone che le cose andranno così.
Ma il gatto ha già una padrona, una ragazza dolce dagli occhi tristi, e un giorno tornerà da lei, a raccontarle le sue avventure, e si farà perdonare per essere scappato così, di punto in bianco, alla ricerca dei confini del mondo.

- Quindi un giorno rivedremo Pataton, papà?
- Ma certo piccolo! Alla fine delle sue strabilianti avventure tornerà qui, e dormirà sulla pancia della mamma, come se non fosse passato neanche un giorno da allora.
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