16 dicembre 2009

Cosmonauta Gagarin non voltarti indietro

Non mi sono mai sentito così solo.
Un tempo credevo di aver sperimentato la forma più estrema di solitudine a migliaia di chilometri dal suolo.

Ho lavorato sodo per distaccarmi completamente da un universo che non mi apparteneva più in nessun modo. Probabilmente le mie radici hanno smesso autonomamente di abbeverarsi da una terra che non forniva più nutrimento, ma quotidiane e letali dosi di sonnolento veleno.

Oggi no, sono vigile, ho la mia vita in pugno.
In alcuni momenti ho la percezione del mio sangue.

L’inverno è molto lungo, le giornate finiscono improvvisamente, e la notte divora il mondo nonostante il quadrante dell’orologio indichi chiaramente che dovrebbe essere pomeriggio.
E’ sempre buio, e il vento incessante e ghiacciato rende insensato ogni movimento privo di una destinazione soddisfacente. Nessun posto dove andare, ma nessun posto dove stare bene.

La festività si avvicina, e con essa il presagio di un male ineluttabile.
I movimenti febbrili delle persone acuiscono la sensazione che il giorno successivo alla baldoria, doverosa come i quindici minuti d’odio, la stanchezza delle membra vincerà.
Tutti si accatasteranno in disordinati mucchi di ossa e grasso e qualche dio ingeneroso getterà semplicemente un cerino sperando che cotanto sfacelo celi ancora delle anime.

Fa un freddo schifoso, me ne sto rannicchiato a letto ad ascoltare qualcosa di indefinito che sbatte e cigola fuori, in strada. E’ un rumore che concilia i pensieri ed accompagna piacevolmente verso il consueto sonno senza sogni. O forse i sogni arrivano, ma la loro materia così impalpabile non può non disintegrarsi al mattino davanti alla regolarità monolitica e nauseante della sveglia del telefono cellulare.

Sarebbe bello venisse la neve. Ma arriverà solo una pioggia tagliente e distratta. Ci difenderemo coi nostri ombrelli, coi baveri dei cappotti, e potremo sentirci sollevati di non dover incrociare sguardi.
E se anche neve fosse, presto diventerebbe fango.

Miglia e miglia più in alto i rottami della mia esistenza, della mia gioventù, percorrono un’orbita concentrica. Un giorno, presto o tardi, incontreranno l’atmosfera, e nel tempo utile forse solamente per un “oh” di due giovani innamorati, si dissolveranno.
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25 settembre 2009

Morte malinconica di un impiegato romantico

Alejandro era più che convinto di odiarsi profondamente.
Tutto lo rendeva insoddisfatto: il suo lavoro, le sue frequentazioni, il suo stesso corpo.

Ma non aveva mai pensato di uccidersi fino a quella mattina di Novembre, in cui la radiosveglia lo aveva destato dal suo sonno inquieto con un meraviglioso tango degli anni '30, ed un pallido raggio sole, filtrando attraverso le tende, era andato a posarsi sulla foto di lui e Valentine felici e benvestiti ad una festa di matrimonio.
La poeticità di quella scena mattutina aveva instillato nel suo animo la ferma convinzione che una malinconica morte sarebbe stata una piacevole novità per la sua vita ripetitiva. Immaginò che tutto dovesse avvenire come in una rappresentazione teatrale, con un pubblico muto e partecipe.

Alejandro fu terribilmente metodico nell'organizzare la sua morte malinconica, era un evento che voleva organizzare con cura.
La sera, tornando dal lavoro, passava in videoteca e noleggiava un film che affrontasse il tema del suicidio. Iniziò da "Otello" di Orson Welles, fino a "Il giardino delle vergini suicide" e persino "Il cacciatore".
Vide decine di film, alcuni belli, altri meno.

Passarono le settimane, ed il suo proposito si rafforzò.
Dalla videoteca passò alla libreria, ed un mondo immenso gli si svelò.
Rimase affascinato da Mishima, da Majakovskij, da Cesare Pavese.
Sentiva di condividere con i grandi poeti romantici lo stesso senso di ineluttabilità, e la romantica idea della morte come estremo atto di coraggio.

Ma più approfondiva il tema del suicidio, più grandi scoperte si affacciavano al suo mondo prima così monocromatico.
In una bellissima sera di Dicembre, appoggiò la sua copia di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" sul comodino, e pianse.

Arrivò la fine dell'anno. Nessuna notte è adatta a morire come l'ultima dell'anno.
Un sottile nevischio misto a pioggia attutiva i rumori della città.
Alejandro scrisse un'affettuosa lettera a suo padre, e la posò in bella vista sul tavolo del suo piccolo ed ameno appartamento.
Mise sul piatto del giradischi Gloomy Sunday interpretata da Billie Holiday.
La canzone, triste e dolce allo stesso tempo, lo accompagnò mentre con gesti provati e riprovati estraeva il revolver, lucido, mai usato, dal cassetto della scrivania. Aprì il tamburo ed infilò un solo proiettile lucente.
Si rammaricò di non essere il protagonista di un film.

Pensò alla sua vita, alla banalità delle persone, alla ripetitività meccanica delle giornate, alla noia, alla scontatezza dei rapporti, alla democraticità dei sentimenti, ed al bell'entusiasmo che l'aveva colpito da quando aveva deciso di morire.
Avvicinò la canna gelata alla tempia poco prima di mezzanotte.
Ma non sparò.
Aveva cercato una morte malinconica, ma era la vita ad esserlo.


20 settembre 2009

Un mio amico che deve morire

Eric mi ha raccontato che ci sarebbero un sacco di cose che vorrebbe fare nella vita.
Non "che avrebbe voluto fare".
Seppure lo specialista, con tono di estrema partecipazione emotiva condita con il dovuto distacco professionale, gli abbia comunicato che morirà.
E lui ha risposto "minchia!".
Avrà il suo momento di gloria, non come lo aveva sognato.

E che gli dici ad uno così? Mi dispiace non va mica bene.
Non gli dici nulla in fondo, che tanto per quanto io possa volergli bene dopo qualche tempo da quel giorno io sarò nel mondo a godermi la mia vita e lui invece sarà sotto terra a marcire.

Però Eric deve aver raggiunto un livello di consapevolezza che è oltre la mia immaginazione: ha ancora la forza per divertirsi in compagnia e per bere un bicchiere di vino io e lui, ascoltando i miei dischi tristi.
Ha capito che mi comportavo in maniera diversa dal solito solo perché ho comprato una bottiglia più costosa di un'euro e cinquanta.
Ma sotto i tre euro, che il vino francese ce lo scoliamo la sera prima della partenza.

Ad Eric scoccia di sicuro andarsene, perché ha ancora un sacco di cose in ballo qui.
E' come quando l'azienda ti trasferisce a fanculo e sei costretto a prenderla con filosofia, "d'altronde ho ancora un lavoro" ti dici.
Però in quegli anni ti eri costruito il tuo mondo e ti tocca ripartire da zero in un posto che non conosci.


Insomma è una scocciatura non da poco morire.
"Però la figata è che alla banca ho restituito un decimo dei soldi."


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