10 novembre 2011

Verrà la morte, e avrà i tuoi occhi

Il trombettista sta seduto con una coperta sulle gambe.
Fa un freddo terribile, e lui col naso rosso accenna tre note così lunghe e malinconiche da farmi pensare ad una nevicata su un camposanto.

Intorno alle undici iniziano a tremarmi vistosamente le mani. 
Batto le dita nervosamente sulla tastiera, i messaggi email continuano ad arrivare uno dopo l'altro ma non riesco a concentrarmi. 
Soffoco: è il segnale che devo bere, che se non bevo mi butto dalla finestra.
Tiro fino alle dodici, esco borbottando, e mi infilo nel bar della metro. 
Mi sparo la prima birra media aspettando l'insalata, la tracanno avidamente, come un assetato giunto all'oasi.
Questa mi calma un po'.
Poi, mangiando, ne bevo un'altra.
Così torno in ufficio, e posso dedicarmi nuovamente al lavoro, senza che nessuno si accorga di nulla. 
Avranno anch'essi i loro mostri, penso, volgendo lo sguardo oltre le finestre. 
Il trombettista non è più lì. 
Lo spazio è vuoto.

Tiro avanti fino alle sei, svolgo il mio compito egregiamente, poi pedalo fino al supermercato.
Compro due o tre cose inutili e passo dieci minuti buoni nel corridoio degli alcolici.
Prendo un paio di bottiglie dirigendomi verso la cassa automatica, perché mi vergogno dello sguardo accusatorio delle cassiere.
Poi, finalmente, posso chiudermi in casa, ed attaccarmi avidamente alla bottiglia.
Spesso non ceno neanche.
Dopo un'ora ho finito la bottiglia, e, raggiunto l'appannamento di cui ho bisogno, mi butto a letto, sfatto, distrutto. 
Guardo distrattamente la tv, non vedo niente.

Da sempre sono preda di un'orribile malinconia, talmente profonda ed irreversibile da avermi costretto, negli anni, a nasconderla -come una brace che cova sotto la cenere- dietro un'apparente solidità, spensieratezza, e voglia di vivere.
E' un esercizio di difficoltà estrema, che posso sopportare solamente grazie al mio vizio di bere.

Attraverso i vetri offuscati della mia mente, inerme, vestito, vivo sogni appannati che scorrono sul soffitto.
In uno ci sono io. Al tempo in cui pensavo di poter salvare gli altri. Cammino sicuro e lancio dardi di verità per indicare il cammino alle pecorelle smarrite.
In un altro, c'è il tuo volto, tu che finalmente, sorridendomi teneramente, vieni a salvarmi.
Tutto fluttua sospeso nel frattempo, anche quell'unica remota possibilità di felicità che mi resta, come se nell'aria risuonasse un notturno di Chopin.

Ed è quel preciso istante in cui sono solo, abbandonato alla mia debolezza, che percepisco le possibilità diminuire, la vita accorciarsi, e la morte farsi sempre più vicina.
Questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. 
Cara Speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Nessun commento:

Lettori fissi