22 maggio 2012

Lo scellerato patto di Raffaele Allovio

Raffaele Allovio accartocciò il documento contabile e si alzò repentinamente dalla scrivania, rovesciando la sedia a terra, che cadde fragorosamente scheggiandosi.
Il rumore rimbombò in tutta la villa, deserta.
Non c'era più niente da fare: l'indomani Raffaele avrebbe dovuto annunciare agli operai che la fabbrica avrebbe chiuso i battenti per sempre.

Suo padre, Gabriele Allovio, aveva avviato l'attività esattamente quarantacinque anni prima, sull'onda del glorioso boom edilizio che aveva segnato i favolosi anni sessanta.
La gente abbandonava le campagne per recarsi in città, e servivano case, moltissime case, per accogliere tutti.
E per fare le case servivano i mattoni.
Grazie a questa intuizione Gabriele, allora ventenne, in pochi anni era diventato ricchissimo, al punto tale da venir soprannominato "Il Principe del Mattone".
All'epoca era un semplice giovane muratore di umili origini, un po' rozzo e privo di istruzione, ma dotato di abilità e determinazione mirabili.
Aveva iniziato l'attività con un paio di operai e formidabile abnegazione, dividendosi tra le sfiancanti ore all'altoforno e la ricerca costante di palazzinari da rifornire.
In breve il commercio era diventato così fiorente da permettergli di assumere moltissimi operai a basso costo, e di abbandonare il forno per dedicarsi al lusso ed agli eccessi che da sempre aveva sognato.
Durante una sfarzosa vacanza a Cipro conobbe l'attrice francese Marie Perrau, sul set di un colossal in costume del grande regista Alberto Brandeburgo.
Il Principe del Mattone se ne innamorò perdutamente, e decise: questa donna sarà mia.
Marie, bellissima e sofisticata, si accingeva ad una sfolgorante carriera cinematografica.
Musa ed amante di Brandeburgo, in un primo momento non degnò neppure di uno sguardo il rozzo Gabriele Allovio. Ma lui, con la determinazione che contraddistingue l'uomo di campagna, si recò sul set ogni giorno per tre settimane portando in dono alla giovane attrice immensi mazzi di rose, magnifici cadeau di brillanti, cioccolatini del cacao più esotico e sfavillante dell'universo.
La bella Marie, un po' per tenerezza per quell'omaccione rozzo, un po' per vanità, e soprattutto per dare soddisfazione ai numerosi paparazzi che la seguivano perennemente, finì per cedere alle lusinghe di Gabriele.
Dalla breve e chiacchierata storia d'amore tra l'imprenditore italiano e l'attrice Marie Perrau nacque il primogenito Raffaele Allovio.

Sin dalla giovane età Raffaele mostrò di aver ereditato maggiormente i geni artistici e un po' mondani della madre, piuttosto che il carattere pragmatico e determinato del potente padre.
Frequentava i salotti bene della città, e soprattutto i foschi locali notturni dove si intratteneva in continue avventure amorose, tra fiumi di champagne e disco music.
Alla fine dei favolosi anni ottanta, il giovanissimo Raffaele era uno dei più famosi casanova della borghesia industriale, e spesso compariva nelle riviste scandalistiche da casalinga, immortalato al fianco della misteriosa amante di turno.
Era certo che quella vita agiata sarebbe durata in eterno, grazie all'infinita ricchezza che suo padre, "Il Principe del Mattone" continuava ad accumulare anno dopo anno.

Passò il tempo, ed un giorno Gabriele Allovio, ormai sessantenne, visibilmente dimagrito e stanco, convocò il figlio nel suo gigantesco studio, al primo piano della grande villa.
Figlio mio, il tempo dei giochi è finito. Mi è stato diagnosticato un male incurabile e quel maledetto medico mi ha dato si e no un paio di settimane di vita. Da domani, dirigerai tu lo stabilimento.
Raffaele ebbe la sensazione che un pugno invisibile lo avesse appena centrato in pieno stomaco: sentì mancare il fiato. Ma non aveva alternative, e, con riluttanza, accettò senza fiatare l'incarico. 
Sebbene in fin di vita, suo padre non era una persona alla quale era concesso rispondere con un rifiuto.

Il mattino dopo, di buon ora, indossato un abito di sartoria, salì sulla Maserati, e si recò per la prima volta allo stabilimento in qualità di direttore.
Non fu facile all'inizio, gli amici reclamavano la sua presenza nei fumosi dancing della città, le donne interessate lo stuzzicavano con scherzetti e provocazioni.
Ma Raffaele maturò, assistette il padre negli ultimi giorni, ed imparò pian piano a dirigere l'azienda, facendosi accettare e stimare dagli operai, dapprima diffidenti nei suoi confronti.
Questi, nel tempo, impararono ad apprezzarne la bonarietà, rispetto al carattere burbero del suo temuto predecessore.
E, pur se non con lo sfarzo dei favolosi anni sessanta, la fabbrica di mattoni continuò la sua attività.
Ma un giorno nella grande città tutti smisero di costruire case.
Le altissime gru che da sempre avevano fatto parte del paesaggio come animali preistorici e spaventosi vennero smantellate.
La gente, stanca del caos e dell'inquinamento, decise di tornare alle campagne.
Nessuno voleva più i mattoni di Raffaele Allovio.
E per continuare a pagare i dipendenti fu costretto a ricorrere a numerosi prestiti e cambiali.
Ipotecò anche la grande villa e il suo sfarzoso giardino.
Svendette la sua collezione di automobili.

Marcus Zoenberg Sachs III, avido direttore della Banca Popolare dei Tre Cantoni, accolse Raffaele con un sorriso inquietante e demoniaco.
Carissimo Allovio, lei è nostro stimato cliente da moltissimi anni, e prima di lei suo padre. E' per questo consolidato rapporto che abbiamo deciso di concederle un termine più ampio per il rientro del finaziamento. Sono felice di comunicarle che ha ancora una settimana a partire da ieri.
Trascorsi sette giorni la banca spedì una comunicazione a Raffaele: il tempo era scaduto. 
L'istituto avrebbe preso in consegna tutti i beni, chiuso lo stabilimento ed utilizzato il terreno per costruire un Centro Commerciale o una Chiesa. 
Ironia della sorte, sarebbero serviti i mattoni di Raffaele.

Sollevò la sedia ferendosi le mani a causa delle schegge di legno.
Raffaele pianse, non per la ferita, ma per l'umiliazione, e per il dispiacere di dover abbandonare alla loro sorte i suoi affezionati operai. 
Decise di ubriacarsi come non faceva da anni, dai tempi delle lunghe serate nei night e nelle discoteche.
Bevve almeno una bottiglia di grappa, e mezza di vino rosso.

Poi, per smaltire la sbronza, a notte fonda, uscì per strada.
La grande città era deserta e silenziosa, come in un film.
Camminò per qualche chilometro, finché, stanco e ubriaco, si sedette ad una fermata del trenta barrato.
Un uomo anziano e dal volto amichevole lo avvicinò.
Tu hai bisogno del mio aiuto mio caro.
E tu chi diavolo sei? 
Sono proprio io, il più grande degli strozzini, il supremo usuraio.
E cosa diavolo vuoi da me? Ormai è troppo tardi, la banca mi ha tolto tutto.
Io posso salvarti, posso salvare la fabbrica e gli operai. Ma ogni anno, in questo stesso giorno, mi pagherai una rata del tuo debito, finché vivrai.
E come potrò pagarti?
L'anziano rassicurante avvicinò le labbra all'orecchio di Raffaele, e sussurrò i termini del contratto.
Raffaele, disperato e un po' scettico, accettò senza riserve.

E fu così che Raffaele Allovio vendette l'anima al diavolo per salvare il suo stabilimento.

Il mattino successivo, nonostante il mal di testa fulminante, Raffaele riuscì a sentire il trillo del suo telefono cellulare.
Rispose, biascicando.
Dall'altra parte della cornetta c'era l'imprenditore e senatore a vita Tettanzio Magnasordi, il quale gli richiedeva la più mastodontica commessa di mattoni della storia, necessaria per la costruzione della Nuova Grande Città, un visionario progetto finalizzato a richiamare la gente dalle campagne.
Decine di altissimi condomini a cubicoli, tutti identici, avrebbero costellato il suolo circostante lo stabilimento.
Raffaele Allovio, incredulo, esultò e pianse di gioia, correndo per tutta la villa, ormai disadorna dei mobili pignorati.
Finché un fugace ricordo della sera precedente lo fulminò. 
E' successo davvero? Oppure ho sognato tutto?

Corse alla fabbrica.
Gli operai lo accolsero sbracciando con disperazione.
Un addetto del turno di notte era inciampato e caduto nella fornace insieme all'impasto per i mattoni.
L'addetto, un ventenne assunto da poco, era stato polverizzato all'istante dalle fiamme ad oltre quattromila gradi, e le sue ceneri ora giacevano in una partita di splendidi mattoni rossi, lasciati lì, ad essiccare.
Avrebbero fatto parte della prima palazzina della Nuova Grande Città.
Raffaele Allovio decise che si trattava di un tragico caso, di un fatale incidente che nelle industrie accadono spesso, anche quando si adottano tutte le misure di sicurezza possibili.
Ciò che contava era aver salvato l'attività, ed il lavoro dei suoi fidati operai... tranne uno.
Ma segretamente temeva di non aver solamente sognato il vecchio rassicurante.

Nei mesi vorticosi che succedettero quella fatidica notte, l'attività andò avanti in maniera serrata.
Ogni giorno diversi camion delle ditte di costruzione venivano a caricare i mattoni, ed in breve la sagoma della prima palazzina iniziò a stagliarsi inquietante nel cielo, come uno scheletro.
In meno di un anno Tettanzio Magnasordi con il suo seguito di preti e politici venne ad inaugurare il condominio, e consegnò personalmente le chiavi del primo appartamento ad una delle famiglie di ritorno dalla campagna.
Il visionario progetto del Senatore stava realizzandosi sotto gli occhi di tutti.

Le cose andavano a gonfie vele, e Raffaele Allovio dimenticò quello che era accaduto, ed il suo debito.
Finché, esattamente un anno dopo, un altro operaio cadde nella fornace.
Ci furono numerosi indagini delle autorità, ma gli ispettori del ministero, opportunamente foraggiati dal Senatore, non rilevarono alcuna irregolarità.
Un tragico incidente, un fatale caso, fu detto.
Regolarmente, anno dopo anno, la fatalità si ripeté.
Le palazzine aumentavano, e gli operai di Raffaele Allovio diminuivano.
Ma Raffaele sapeva che quello era il prezzo da pagare per garantire ai suoi operai un futuro per loro e per le loro famiglie. Nonostante i terribili sensi di colpa, proseguì l'attività, e rispettò il suo patto.

Dopo un tempo lunghissimo la Nuova Grande Città fu completata.
I discendenti degli operai dello stabilimento vi risiedevano.
Il luogo brulicava di vita, di amori, di commerciò, di felicità e di infelicità.
Dove prima non c'era che terra incolta, adesso si consumava il miracolo della società.
Raffaele Allovio, ormai molto vecchio, salì sul tetto del capannone: lo stabilimento era deserto.
Tutti gli operai erano andati in pensione, ed era rimasto solo lui a completare le ultime commesse.
L'indomani sarebbero state posati gli ultimi mattoni, ed inaugurato l'edificio più grande ed alto della città, alla presenza di Tettanzio Magnasordi Jr, e del suo seguito di grassi preti e politici.

Raffaele guardò la città, che come in una notte di tanti anni prima appariva deserta e silenziosa.
Le sagome dei palazzi si stagliavano sul cielo stellato come gigantesche lapidi.
Ognuno di essi era costruito con le ceneri di un amico.
La Nuova Grande Città era un gigantesco cimitero.
Raffaele Allovio trattenne il fiato, e per un attimo gli parve di sentire le voci dei suoi operai, innocenti sacrificati alla bestia, al dio denaro.
Sorrise loro, domandò perdono.
Sarò con voi, amici miei.
Ma forse era solo il vento tra i palazzi, nel momento in cui Raffaele Allovio si lasciava cadere nella fornace, nelle fiamme eterne.
.

Nessun commento:

Lettori fissi