04 settembre 2012

I visitatori fuori, per favore

L'estate era quasi finita, e noi non ce la passavamo per niente bene.
Trascorrevo i miei pomeriggi liberi in ospedale a far compagnia a mio fratello. Lui per la maggior parte del tempo dormiva, e quando era sveglio era perennemente appannato dai medicinali.
Leggevo distrattamente riviste, appollaiato su una di quelle vecchie sedie da scuola, abituato all'odore sgradevole di disinfettante e corpi umani mal lavati. Il vecchio con cui mio fratello condivideva la stanza tossiva in continuazione, ma non sembrava stare particolarmente male. Spesso se ne andava in giro per i reparti, chiacchierando di calcio con gli infermieri. Chissà cosa aveva e da quanto tempo era lì, con me non parlava.
Ogni sera mia cognata faceva capolino nella stanza, lo sguardo stanco. Parlavamo del più e del meno, e degli aggiornamenti generici del medico. "Risponde bene alla terapia".
I medici e gli infermieri non sono esseri umani.
Raramente ho visto le due figlie. Quando chiedevo di loro a Rebecca, più per parlare di qualcosa che per un vero interesse, erano a nuoto, a ginnastica ritmica, agli scout.
Forse era meglio così, evitare loro di assistere al lento disgregarsi del padre.
Ogni tanto lui apriva gli occhi e chiacchierava un po'.
Aveva ancora lo sguardo intenso e la sagacia di un tempo. Il fratello bello, in gamba, vincente.
Il fatto che io potessi entrare ed uscire a piacimento da quella stanza, non mi rendeva migliore di lui.

In quel periodo stavo cercando a fatica di smettere di bere.
Bere è la cosa più bella e facile del mondo quando sei depresso. Il vino è sugli scaffali dei supermercati, non servono buchi in vena o incontrare gente poco raccomandabile in vicoli bui.
La condizione dell'alcolizzato è strana, mantenendo un certo rigore è assolutamente possibile conservare una parvenza di normalità. La regola aurea è bere al mattino solamente lo stretto necessario per tirare avanti fino a pranzo, uno due bicchierini di qualcosa di forte, e mangiare un uovo sodo. Due pinte di birra massimo a pranzo, tre il venerdì, ubriacarsi a lavoro non va bene. Più o meno intorno alle sei, quando iniziano a tremare le mani, e si è aggrediti dal panico, uscire di corsa e sbronzarsi. Dormire.
Avevo deciso di darci un taglio perché il mio fegato sembrava dover esplodere da un momento all'altro. Sentivo un dolore tale da piegarmi in due, pentendomi di essere vivo. Persino pisciare era diventato terribilmente doloroso.
Sapevo perfettamente come vanno queste cose. Sapevo che tutti gli alcolizzati provano a smettere di bere ciclicamente, si prendono una sonora ultima sbronza, fanno un paio di giorni puliti in preda all'entusiasmo, e poi si attaccano alla bottiglia. Più o meno facevo così anche io, ma almeno ero riuscito a limitare le ubriacature da ko. Le mie ubriacature da ko erano tremende, mi chiudevo in casa e bevevo fino allo svenimento, in circa mezz'ora.
Il fatto di limitarle era già qualcosa.

Quell'anno avevo finalmente un lavoro e una casa.
Un mio vecchio compagno di classe, e recente compagno di bevute, mi aveva trovato un posto alle Ferrovie Est, di cui era un funzionario.
Le Ferrovie Est sono una società privata che gestisce un centinaio di chilometri di rotaie tra la città e l'hinterland, servendo principalmente la moltitudine di pendolari che dai paesi dormitorio si muovono quotidianamente verso il centro finanziario e ritorno.
Ero stato assunto come addetto alla composizione dei treni. In sostanza facevo parte di una squadra che fisicamente assemblava i convogli sui binari morti. Il materiale rotabile delle Ferrovie Est mi affascinava, vecchi vagoni dismessi delle ferrovie nazionali, riverniciati di verde e bianco, e risistemati alla buona all'interno.
Il lavoro era poco impegnativo e ben pagato. Si trascorreva la maggior parte del tempo nella garitta degli operatori a guardare la tv e a bere.
Il mio vecchio amico inoltre mi aveva trovato un piccolo appartamento vicino alla stazione.
Si trattava di un monolocale in una vecchia palazzina di ringhiera, molto carino, con il caminetto. La casa era sua, ma me l'affittava a prezzo politico, con il tacito accordo di cederglielo ogni qual volta ne avesse avuto bisogno per scopare, in media una, due volte la settimana.
Lui era sposato ma aveva spesso avventure con giovani donne, forse a pagamento, non so. Mi chiamava con un po' di anticipo, io sistemavo il letto, toglievo le cicche di sigaretta e le bottiglie vuote, e me ne andavo in qualche pub a sbriciolarmi.

Non me la passavo benissimo, ma neanche così male in effetti.
C'era anche questa cosa dei racconti, scrivevo e pubblicavo parecchi racconti sulle riviste. Non avevo tirato su un centesimo scrivendo, però la cosa mi dava parecchia soddisfazione. Dopo un po' di racconti pubblicati  una casa editrice si era fatta avanti e mi aveva affibbiato una editor, alla quale periodicamente inviavo i miei scritti. Non l'ho mai vista di persona ma era una bravissima persona.
Dolcemente tagliava, cuciva, consigliava, riscriveva, rendeva tutti i miei spigoli letterari più morbidi.
Mesi prima del ricovero di mio fratello mi aveva anche procurato un invito per un seminario di scrittura creativa, al quale sono andato ed ho preso parecchi appunti. Alla fine c'era un piccolo rinfresco, durante il quale mi sono ritrovato a chiacchierare con un altro scrittore in erba come me.
Mi dice con una saccenza un po' fastidiosa, "Per scrivere romanzi di successo, servono grandi idee e grandi storie, il quotidiano non funziona.". Forse aveva anche ragione, da un punto di vista hemingwaiano. In fondo è vero che Per chi suona la campana è il più grande romanzo di tutti i tempi.
Ma io all'epoca ero un convinto ed umile seguace di Raymond Carver.
Dopo il seminario telefonai alla mia editor per raccontarle tutto, e lei mi suggerì di buttare giù qualcosa tenendo presente gli appunti. Le dissi anche che la mia ragazza mi aveva lasciato, e lei mi consigliò di buttare giù qualcosa anche a riguardo.
Era più o meno maggio.
Mi aveva lasciato credo per motivi futili, non perché bevevo, il che sarebbe stato anche plausibile.
C'era questo quarantenne divorziato che la corteggiava un po'.
Il tizio era uno senza arte né parte che vestiva da fricchettone, con i pantaloni larghi di lino, i sandali, l'aria vacua da artistoide depresso.
Lei se n'era invaghita e mi aveva mollato di punto in bianco.
La cosa mi aveva fatto girare le scatole, soprattutto perché aveva avuto anche il coraggio di dirmi che lo trovava interessante.
Il tipo se l'era chiavata un paio di volte e poi era sparito con scuse imbarazzanti.
Lei si era rifatta viva per vederci, ma mi ero messo in testa di fargliela pagare.
D'altronde non avevo neanche il problema del sesso, perché ad un certo stadio dell'alcolismo si ha pochissimo desiderio.

Poi arrivò l'estate, io ero rimasto da solo, ed i dottori dopo i primi esami infausti avevano consigliato il ricovero immediato di mio fratello.
Da anni non si vedeva una stagione così insopportabilmente calda.
Facevo sei giorni di turno e due di riposo, e coglievo l'occasione per andare un po' al mare, in una spiaggetta non troppo affollata sotto il ponte della ferrovia. Mi facevo un bagno, e poi leggevo. Una volta però c'era anche la mia ex ad una trentina di metri con il suo nuovo fidanzato, un altro ancora. Non mi avevano visto ed io li ho spiati per un po'. Giocavano a carte sul telo da mare e si sbaciucchiavano di quando in quando. Lui era parecchio più bello di me, con un bel fisico asciutto, ed anche lei sembrava un'altra. Così da quel giorno cambiai spiaggia.
Un'altra volta ero sul bagnasciuga a godermi le onde e poco lontano c'erano due coppie. Trincerato dietro al libro ascoltavo i discorsi. Non avrebbero mai ammesso che tra loro era in corso una gara a chi stava meglio. A chi faceva più figli. A chi comprava la macchina più costosa, la casa vacanze, il gommone. Mi fecero un po' pena però, perché il modo in cui aspiravano nervosamente le loro sigarette lasciava trasparire una realtà diametralmente opposta di frustrazioni quotidiane.
Nel frattempo tentavo di scrivere i miei primi grandi racconti, e non le solite storie di quotidiano dolore. Avevo buttato giù un paio di epopee di guerra, una roba fantascientifica da brividi freddi, ed anche qualche polpettone d'amore. Lì per lì mi sembrarono roba discreta, ma dopo un po' di macerazione sulla scrivania, si rivelarono schifezze. Mandai un messaggio alla mia editor, dicendole "riesco a scrivere bene solo cose che conosco. Riesco a scrivere solo di ubriacature da ko. Mi sa che non ne uscirà un grande romanzo".

A Luglio inoltrato iniziai a soffrire i terribili dolori al fegato, e solo la malattia di mio fratello mi faceva stare meglio. Era come se gli stessi succhiando la linfa vitale da quella sedia di merda leggendo riviste scientifiche.
Dopo il lavoro andavo al supermercato cercando di stare alla larga dallo scaffale degli alcolici, e compravo essenzialmente solo pane confezionato, insalata già lavata, pomodori datterini, e cartoni d'acqua naturale.
Bevevo tantissima acqua cercando disperatamente di ripulire i miei organi marci.
Di tanto in tanto però uscivo la sera con qualche amico e mi ubriacavo ferocemente. -Meglio in compagnia che da solo, lo consideravo un passo avanti.
Rebecca era sempre più preoccupata, ma diceva alle bambine che papà sarebbe tornato a casa, e loro si fidavano.
Era troppo presto per metterle davanti alla monolitica consapevolezza della morte, che depenna a caso le persone e gli affetti uno dopo l'altro. Dovevano godere il più possibile quell'innocenza ingenua fatta di punti di riferimento immutabili, per la quale nulla di brutto può accadere, e tutto si risolve sempre per il meglio.
Capivo Rebecca, ed ero tormentato dai sensi di colpa della mia condizione di egoistica impotenza.
A volte fantasticavo di prendere il posto di mio fratello, di farmi carico delle bambine e di Rebecca in sua assenza.

Agosto fu un monotono susseguirsi di giorni uguali, senza alcun apparente sviluppo.
Il caldo sensazionale smorzava le nostre poche energie.
Una notte il mio vecchio amico mi chiamò e pensai di dover liberare il campo per una serata. Invece aveva lasciato la moglie ed aveva bisogno dell'appartamento. Potevo rimanere per un po', finché non avessi trovato un'altra sistemazione. Non era facile a quel prezzo, se non parecchio in periferia.
Consultavo quotidianamente gli annunci immobiliari, ed ero terrorizzato dall'idea di finire in un tugurio. Sarebbe stata la mazzata finale alle mie ambizioni di uscire dal buco nero in cui mi ero ficcato.
In casa faceva caldissimo, e ci toccava dormire insieme sul divano letto. Tenevamo il ventilatore al massimo, tentando di smuovere l'aria. Non si potevano aprire le finestre a causa dell'afa e delle zanzare.
Alle volte però stare in compagnia non era male, avevamo in comune la passione per i film di guerra, ed entrambi cercavamo di stare il più possibile alla larga dalla bottiglia.
Lui guadagnava bene, e faceva una spesa di livello superiore. Pesce spada, bresaola, gelati. Faceva una pasta con le sarde di prim'ordine.
Passammo la sera di ferragosto a guardare La Sottile Linea Rossa, con un fantastico deumidificatore nuovo  fiammante e rinfrescare la stanza.
Mi sentivo un po' meglio, ma mio fratello nonostante il moderato ottimismo dei medici non usciva dall'ospedale, e giorno dopo giorno era sempre più annebbiato. Parallelamente Rebecca sembrava invecchiare innaturalmente, e non c'era più nulla in lei che ricordasse la splendida trentacinquenne di qualche mese prima.

Una sera un'infermiera grassa ci chiese con scortesia di uscire dalla stanza per fare le iniezioni. Spingendo il suo carrellino, aveva detto senza alcuna emozione "i visitatori fuori per favore".
Nel corridoio Rebecca mi trapassò con uno sguardo pieno di rabbia, con le vene del collo gonfie.

Il trentuno Agosto, dopo tre mesi di siccità, il cielo riversò su di noi una pioggia torrenziale.
Dopo qualche giorno mio fratello era morto.
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