16 aprile 2012

Il lungo inverno (Capitolo secondo)

In quel periodo stavo insieme ad una ragazza più grande di me di qualche anno, Nina.
Nina era carina e completamente pazza.

Ci siamo conosciuti alla tipica festa tardo-adolescenziale, dove maschi trentenni stonfati di alcool provano a rimorchiare donne ultratrentenni uscite da storie problematiche.
Dopo la più banale delle conversazioni ci siamo trovati a limonare squallidamente su un divano, e poi, a tarda notte, con la scusa di accompagnarla a casa in macchina, abbiamo fatto sesso sul sedile del passeggero. Una furia cieca, Nina.

L'inizio non propriamente romantico lasciava presagire un futuro altrettanto spiccio.
Dopo qualche settimana di frequentazione mi trasferii a casa sua, un piccolo appartamento in periferia che condivideva con il figliolo di quattro anni, Tommaso, un bambino abbastanza schizoide e per niente socievole.
Il padre, un pallanuotista palesemente ritardato, veniva a trovarlo senza troppo entusiasmo ogni weekend.
Da par mio non è che facessi il padre, era più come avere un coinquilino in miniatura con il quale non puoi neanche farti una birra. Io non davo troppo fastidio a lui (anzi a volte facevo anche finta di prendermene cura) e lui non ne dava assolutamente a me. 
Nina però era la più paranoica delle madri: ogni volta che Tommaso correva per più di trenta secondi, verificava lo stato della sua sudorazione che, ove non controllato costantemente, avrebbe di certo causato la prematura morte del ragazzino.
E poi litigavamo per ogni minima cosa. E come poteva essere diversamente? Un trentenne indolente, sfaticato e pigrissimo, insieme ad una madre trentacinquenne frustrata ed insoddisfatta.
L'argomento principale di discussione erano i videogames: lei usciva per andare al lavoro, ed io giocavo ai videogames. Rientrava otto ore dopo, e mi trovava impegnato nella stessa medesima attività.
Io, con la spudoratezza che mi contraddistingue, millantavo di essermi appena messo a giocare.
Una guerriglia costante che penalizzava non poco le mie performance a World of Warcraft.

Nina tendenzialmente odiava me meno del resto del mondo, al di fuori naturalmente di Tommaso, che venerava come un piccolo Buddha.
Odiava i genitori, per motivi che spesso mi raccontava ma che non ho mai colto fino in fondo. La madre non era mai definita come "mamma", ma principalmente come "la stronza", o "quella stronza".
Odiava le colleghe al supermercato dove lavorava. Soprattutto una certa Roberta, che, a suo dire, sarebbe passata dal banco pesce agli uffici amministrativi grazie ad una gerarchica trafila di pompini.
Odiava i vicini, rumorosi e sparapose, e non mancava di escogitare piccoli dispetti quotidiani nei loro confronti, come buttare le sigarette sul balcone di fianco, o fare la lavatrice ad ore impensabili.
Odiava inoltre i cani, i vecchi, il rumore del frigorifero, i peli nella vasca, l'autobus delle sette e venti, il calcio, i film d'autore, la musica tutta, le elezioni politiche, le passeggiate, la birra, il cibo etnico, gli specchi che ingrassano, le commesse dei negozi, i miei amici tutti, una miriade di altre cose, e Roberto Benigni.
Nessuno in Italia odia davvero Roberto Benigni, al limite può stare un po' antipatico.
Invece no, l'odio di Nina per lui era sincero e profondo.

Insomma, non eravamo proprio fatti per stare insieme.
Eppure il giorno della triade infausta convivevo con lei da circa due anni.
Perché mai, vi chiederete? 
Primo, perché ero caduto nella sua trappola dorata, fatta di fantastica biancheria intima.
Secondo, perché avevo troppa paura di quello che avrebbe potuto farmi se avessi manifestato l'intenzione di lasciarla. Non l'avete vista, voi, nei giorni no, affettare la bistecca con un coltellaccio da cucina.
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