24 aprile 2012

Il lungo inverno (Capitolo terzo)

Ed eccomi qua, intontito, dolorante, incredulo, immobile, ingessato.
Il post operatorio è uno stato affascinante: si trascorrono lunghissime ore in stato di catalessi totale a fare strani sogni. Gli antidolorifici fanno il resto: oblio totale.

Uno dei sogni stranamente realistici vede mia madre ripetermi a mo' di mantra: "Fai nuoto, che ti fa bene per l'asma e per le spalle.. Fai nuoto, che ti fa bene per l'asma e per le spalle..", fino a che la sua voce non diventa una sorta di litania. Io fuggo con gli occhi gonfi di lacrime, ticchettando sul pavimento di marmo con le lucidissime Copa Mundial ai piedi, e nelle narici l'odore forte del grasso di foca (pausa nella narrazione, l'autore va a documentarsi sulla natura del grasso di foca, e poi allibisce pensando a quei simpatici animaletti massacrati per le mie Copa Mundial).
Secondo sogno realistico: Nina che mi costringe a spogliarmi in pubblico, ed il mio pene diventa grande quanto una lumachina intirizzita. Lei ride, tutti ridono. Ed allora vorrei smenazzarmelo per mostrare la mia imponente verga nel pieno del suo turgore, ma non c'é niente da fare, è moscio, raccolto, invisibile.
Terzo sogno dannatamente realistico: il Maresciallo Tito che si suicida.
Il Maresciallo Tito era il mio cane, un magnifico spinone maculato.
Naturalmente non si è suicidato, è andato nel paradiso canino alla veneranda età di quindici anni, stroncato da una overdose di cioccolato fondente, rubato dalla borsa di mia madre e fagocitato con sommo estremo piacere nel giro di pochi secondi.
Ma nel sogno il Maresciallo Tito assume il cioccolato lentamente, sdraiato su una chaise long vittoriana, discutendo con me dell'immortalità dell'anima, così come Socrate bevve la cicuta per obbedire alle leggi dello stato.

Insomma, sogni agitati prima del ritorno alla consapevolezza.
Finiti gli antidolorifici c'é una sola cosa: dolore.
Dolore ancestrale, continuo, torturante.
Poi anche questo si assottiglia, e resta la subdola paura del dolore, che ti fa diventare immediatamente un vecchio, che ti gela il sangue ogni volta che senti un cigolio, uno scrocchiare improprio delle articolazioni.

Fino al momento in cui ti dicono: ok, puoi andartene a casa.
Nei rari momenti di lucidità ho ponderato con attenzione riguardo il luogo in cui avrei voluto trascorrere la mia lunga convalescenza.
Di certo non posso andare a casa dei miei, luogo caotico come un bazar di Istanbul. 
Già mi vedo, immobilizzato in salotto, con quello stronzo di mio padre che parla contemporaneamente a due cellulari (cliente con uno, amante con l'altro), mia madre che continua a sfornare manicaretti, telegiornale, nipoti rumorosi e demoniaci che scorazzano, e poi i parenti di passaggio, la nonna con badante marocchina e ficcanaso nel weekend, la donna delle pulizie maldestra.
Io ho bisogno di tranquillità, e soprattutto di privacy.

Con papà tra l'altro le cose sono precipitate drammaticamente.
Non ci parliamo quasi più, lui sa che io ho beccato le sue tresche, e mi teme fottutamente.
Ogni volta che apre bocca io lo fulmino con una delle mie frecciate così taglienti da gelare il sangue, ed ogni volta la mia anima si annerisce, nella consapevolezza di pronunciare parole colme di disprezzo e di sarcasmo nei confronti di mio padre. Ma allora perché lo fa? Perché non torna sulla retta via?

In sostanza, l'opzione convalescenza a casa dei miei non è fattibile.

D'altra parte stare a casa di Nina potrebbe essere non meno problematico.
Alcuni pro ci sarebbero: i suoi magnifici pompini, e la possibilità di skillarmi come un dannato a World of Warcraft quando lei è al lavoro. 
Ma il sogno realistico numero due, unitamente all'idea di dover sopportare senza via di scampo le sue sfuriate quotidiane accentuate dalla responsabilità di un figlio e di un compagno invalido e senza reddito, mi rendono alquanto scettico riguardo l'ipotesi di sopravvivere ad un'esperienza simile.
Avete presente "Misery non deve morire"?

Ma poi all'improvviso il fulmine a ciel sereno.
L'illuminazione.
La salvezza.
Come diavolo ho fatto a non pensarci prima?
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16 aprile 2012

Il lungo inverno (Capitolo secondo)

In quel periodo stavo insieme ad una ragazza più grande di me di qualche anno, Nina.
Nina era carina e completamente pazza.

Ci siamo conosciuti alla tipica festa tardo-adolescenziale, dove maschi trentenni stonfati di alcool provano a rimorchiare donne ultratrentenni uscite da storie problematiche.
Dopo la più banale delle conversazioni ci siamo trovati a limonare squallidamente su un divano, e poi, a tarda notte, con la scusa di accompagnarla a casa in macchina, abbiamo fatto sesso sul sedile del passeggero. Una furia cieca, Nina.

L'inizio non propriamente romantico lasciava presagire un futuro altrettanto spiccio.
Dopo qualche settimana di frequentazione mi trasferii a casa sua, un piccolo appartamento in periferia che condivideva con il figliolo di quattro anni, Tommaso, un bambino abbastanza schizoide e per niente socievole.
Il padre, un pallanuotista palesemente ritardato, veniva a trovarlo senza troppo entusiasmo ogni weekend.
Da par mio non è che facessi il padre, era più come avere un coinquilino in miniatura con il quale non puoi neanche farti una birra. Io non davo troppo fastidio a lui (anzi a volte facevo anche finta di prendermene cura) e lui non ne dava assolutamente a me. 
Nina però era la più paranoica delle madri: ogni volta che Tommaso correva per più di trenta secondi, verificava lo stato della sua sudorazione che, ove non controllato costantemente, avrebbe di certo causato la prematura morte del ragazzino.
E poi litigavamo per ogni minima cosa. E come poteva essere diversamente? Un trentenne indolente, sfaticato e pigrissimo, insieme ad una madre trentacinquenne frustrata ed insoddisfatta.
L'argomento principale di discussione erano i videogames: lei usciva per andare al lavoro, ed io giocavo ai videogames. Rientrava otto ore dopo, e mi trovava impegnato nella stessa medesima attività.
Io, con la spudoratezza che mi contraddistingue, millantavo di essermi appena messo a giocare.
Una guerriglia costante che penalizzava non poco le mie performance a World of Warcraft.

Nina tendenzialmente odiava me meno del resto del mondo, al di fuori naturalmente di Tommaso, che venerava come un piccolo Buddha.
Odiava i genitori, per motivi che spesso mi raccontava ma che non ho mai colto fino in fondo. La madre non era mai definita come "mamma", ma principalmente come "la stronza", o "quella stronza".
Odiava le colleghe al supermercato dove lavorava. Soprattutto una certa Roberta, che, a suo dire, sarebbe passata dal banco pesce agli uffici amministrativi grazie ad una gerarchica trafila di pompini.
Odiava i vicini, rumorosi e sparapose, e non mancava di escogitare piccoli dispetti quotidiani nei loro confronti, come buttare le sigarette sul balcone di fianco, o fare la lavatrice ad ore impensabili.
Odiava inoltre i cani, i vecchi, il rumore del frigorifero, i peli nella vasca, l'autobus delle sette e venti, il calcio, i film d'autore, la musica tutta, le elezioni politiche, le passeggiate, la birra, il cibo etnico, gli specchi che ingrassano, le commesse dei negozi, i miei amici tutti, una miriade di altre cose, e Roberto Benigni.
Nessuno in Italia odia davvero Roberto Benigni, al limite può stare un po' antipatico.
Invece no, l'odio di Nina per lui era sincero e profondo.

Insomma, non eravamo proprio fatti per stare insieme.
Eppure il giorno della triade infausta convivevo con lei da circa due anni.
Perché mai, vi chiederete? 
Primo, perché ero caduto nella sua trappola dorata, fatta di fantastica biancheria intima.
Secondo, perché avevo troppa paura di quello che avrebbe potuto farmi se avessi manifestato l'intenzione di lasciarla. Non l'avete vista, voi, nei giorni no, affettare la bistecca con un coltellaccio da cucina.
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10 aprile 2012

Il lungo inverno (Capitolo primo)

Ora che siamo qui, sdraiati su questo prato in un magnifico giorno di Maggio, a goderci il sole caldo e il vento tra gli alberi ho la certezza che si, il lungo inverno è finalmente finito. 
Sotto di noi il pendio scosceso, i colori sfumati della primavera avanzata, che più in basso diventano pastello di case, ed ancora più giù diventano blu di mare.
Immaginate la mia storia come uno di quei film indipendenti degli ultimi anni, e questa come la scena iniziale e finale allo stesso tempo: la camera parte su un campo stretto su noi due e poi si allarga allontanandosi lentamente, mentre una musica fatta di rullante, chitarra pulita, pianoforte e violino (suonata da uno sconosciuto ma emergente gruppo indierock) accompagna il nostro diventare due puntini immobili ed indefiniti nell'infinito verde e blu che ci circonda.

Tutto inizia il giorno in cui in una partita di calcetto tra amici centrai in pieno la famosa triade infausta: lesione del legamento collaterale, crociato anteriore, e menisco.
La mia carriera di calciatore semiprofessionista si era interrotta anzitempo diversi anni prima, a causa dell'evidente limitatezza del mio controllo di palla, ed alla scarsa voglia di allenarmi con regolarità. 
Per sfogare quindi la voglia di calcio giocato che affligge la maggioranza degli esemplari di sesso maschile italiani in età compresa tra i sette ed in settanta, non mi restava altra scelta che dedicarmi alla classica partitella di calcetto tra amici della domenica pomeriggio.
Lo spettro di soggetti che calca i campi di calcetto la domenica pomeriggio è quantomai ampio: dal ventenne in forma campionato, al quarantenne obeso, al trentenne fiacco come me.
Quella domenica mi recai all'appuntamento con il consueto entusiasmo, felice di poter far valere come ogni settimana il mio perentorio stacco, l'anticipo assassino "palla o morte", che mi avevano reso tristemente noto sui campi di tutta la regione, fino a farmi battezzare come il "Pablo Montero della Riviera".

La telecronaca immaginaria sarebbe stata pressapoco così.
Siamo al cinquantesimo minuto di gioco di questa appassionante classicissima tra scapoli ed ammogliati che vede in vantaggio gli scapoli per dodici reti ad una. 
Un pubblico delle grandi occasioni scalda i valorosi in campo, inquadrata sugli spalti la bellissima moglie del commercialista Branzini con i due figlioli, ed al suo fianco possiamo individuare l'ennesima fiamma dell'avvocato civilista Pericu, il quale proprio in questo momento (maglietta di Kakà) lancia un bel pallone in profondità. Ma ecco che il fulmineo Pablo Montero della Riviera capisce tutto ed a falcate imperiose sembra poter anticipare l'attaccante avversario. Ma, attenzione! L'attaccante avversario, il temuto Panzer, non si avvede dell'anticipo e calcia a vuoto mancando clamorosamente il pallone e centrando in pieno l'elegante difensore che rovina con un tonfo spaventoso al suolo.
Amici l'infortunio sembra grave a giudicare dalla sua smorfia di dolore!
Il pubblico impietrito assiste alla scena, mentre noi lasciamo la linea ad un minispot.

E fu così che centrai la mitologica triade infausta.
Dopo una nottata di dolore mostruoso con una confezione di fagioli congelati sul ginocchio, durante la quale meditai di amputarmi la gamba con un coltellaccio da cucina, decisi di recarmi di buon ora al pronto soccorso locale. 
Il medico di turno, un giovanotto inesperto e saccente, mi tastò per pochi istanti prima di sentenziare con distaccata professionalità: "è da operare".
Odio profondamente i medici di turno, perché sono completamente assuefatti ed insensibili al dolore altrui, e si lanciano in diagnosi affrettate nonostante tu pensi di meritarti almeno un centinaio di esami, tra raggi, risonanze magnetiche, consulti tra luminari, prima di prendere una decisione così grave.

In quei momenti frenetici pochi ma definiti pensieri ti affollano la mente.
1) Rimarrò zoppo per tutta la vita con pezzi di ferro nel ginocchio.
2) Avrò un sacco di tempo per giocare ai videogiochi.
3) Voglio la mamma.

Il lungo inverno era alle porte, ed io mi apprestavo ad una dolorosa operazione chirurgica.
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