29 febbraio 2012

La vera storia di Ivan Ivanovich III, paperonauta

Questa è la storia di Ivan Ivanovich III, il più famoso paperonauta di tutti i tempi.
Essere un paperonauta è un grande privilegio, ed allo stesso tempo un importante fardello. 
Perché, sin dalla nascita, ogni membro della stirpe dei paperonauti ha un sol, unico, obiettivo: lo spazio.

Ivan Ivanovich III aveva poche lune quando suo padre, il generale Ivan Ivanovich II, glorioso e pluridecorato aviatore di guerra, lo prese con sé, distaccandolo dall'affetto della madre e dai giochi spensierati dei fratelli. 
In una notte stellata e freddissima alle porte della città nuova, il severo padre, che mai concedeva gesti d'affetto,  pose con ferma gentilezza l'ala sul piccolo, sollevandogli il becco in direzione dell'infinito blu.
"Quello, figlio mio, sarà la tua casa. Ci guarderai da lassù, e noi tutti, io, tua madre, i tuoi fratelli, ed il mondo intero, saremo orgogliosi di te".

Da quella notte la vita di Ivan Ivanovich III fu diversa da quella di tutti gli altri piccoli. 
Negli anni che seguirono, non vi furono giochi, né affetto materno, né comodi giacigli, ma solo duro e rigido addestramento sotto la guida dell'inflessibile padre. 

Con il passare di molte lune, il giovane paperonauta si fece sempre più bello e forte, ed in lui crebbe l'ardore ed il desiderio di conquistare la galassia, e di posare su ogni pianeta la bandiera rossa dell'impero dei Paperi.
Alle volte alzava il superbo becco verso i pianeti, e chiudendo gli occhi poteva immaginarsi volteggiare leggero e libero dall'impacciatezza palmata dei suoi simili.
Altre volte, invece, sentiva il peso della grande responsabilità di essere membro di così nobile stirpe, e cercava conforto nel padre, unico suo contatto umano, il quale, sprezzante, derideva tali momenti di pusillanime debolezza.
"Ricordati sempre chi sei." Gli diceva. "Un paperonauta aspira solamente all'infinito spazio".
Egli stesso aveva a lungo sognato di diventare un esploratore galattico, ma la lunga guerra papericida aveva irreparabilmente impedito quel desiderio.

Ciò nonostante Ivan Ivanovich II fu un temuto pilota di guerra.
Il suo triplano scompariva tra le nuvole, per poi riapparire fulmineo ed implacabile sulla coda degli inermi piccioni nemici. 
Ma in un assoltato giorno d'estate, quando la guerra era ormai sul finire, l'impavido asso fu inaspettatamente abbattuto da un gabbiano, che, mortalmente ferito in battaglia, decise di gettarsi coraggiosamente in rotta di collisione per compiere l'estremo sacrificio. 
Ivan Ivanovich II riuscì a sopravvivere a quell'incidente, ma perse un occhio.
Pur ricevendo innumerevoli medaglie al valore, da quel giorno non poté volare mai più.

Era il mese Nebbioso, e tutta la città sembrava avvolta da una surreale patina di silenzio e raccoglimento.
Il giovane paperonauta la guardava da lontano, recluso ormai da lungo tempo nella base paperonautica in attesa della partenza. Era tranquillo e determinato, ma sentiva il dolore per il distacco da tutti i suoi cari, che avrebbe rivisto solo dopo un tempo interminabile.
Quando fu il momento indossò la tuta ed il casco, ricevette il saluto degli ufficiali, ed il generale-padre lo accompagnò fino al boccaporto dell'astronave. Prima di chiudere il portello gli consegnò una busta e gli disse: "figlio mio, aprila solo dopo che avrai superato la seconda luna. Sono molto orgoglioso di te".
Ascoltando il conto alla rovescia, Ivan Ivanovich III si sentì profondamente fiero di essere stato all'altezza delle aspettative del suo predecessore, il più grande asso dell'aria di tutti i tempi.
Dopo pochi minuti, il razzo scomparve nel cielo, lanciato a mille nodi verso l'ignoto, dove nessun papero aveva osato prima d'allora.

Superata la seconda luna, Ivan aprì la busta. Era un dispaccio del fratellino minore, Bobol, vecchio di diverse lune: "Fratello mio, nostra madre è in letto di morte e vorrebbe averti al suo fianco, un'ultima volta, per dirti quanto ti ama. Ti aspettiamo con ansia.".
Il paperonauta si sentì svenire, e una rabbia cieca lo travolse: suo padre aveva trattenuto il messaggio per non distrarlo dalla missione, l'unica cosa alla quale si fosse mai interessato, privandolo così dell'ultima occasione di stringere a sé le dolci piume della sua amata mamma, e di esserle vicino in quel terribile momento.
Sentendosi perso corse all'oblò di poppa e guardò in basso: il pianeta era ormai un indistinguibile puntino nell'infinito.

Ivan Ivanovich III cullò ed accrebbe quel rancore giorno dopo giorno come una ferita impossibile da cicatrizzare, maledicendo la sua nobile origine, e giurando a sé stesso che non avrebbe mai perdonato il generale padre per quel meschino atto di egoismo.

Passarono molti anni ed il paperonauta, consumato da quel dolore, stanco ed invecchiato, tornò finalmente al suo pianeta, dopo aver tracciato la mappa galattica dell'intero universo. 
Venne accolto con grandi feste ed onori a Papersibirsk, dove le autorità inaugurarono la grande statua che lo ritraeva giovane e forte, lo sguardo fiero, ed il casco da cosmonauta stretto sotto l'ala.

Tornò a casa. Ad attenderlo era rimasto il solo fratello più giovane, con la sua famiglia, che nel tempo era diventata prospera e numerosa.
I due si guardarono con tristezza, consci che nulla avrebbe potuto restituire loro il tempo perduto.
Bobol, che nella vita non aveva mai sollevato le zampe palmate dal suolo natio, lo abbracciò come se non fosse mai stato lontano.
"Nostro padre, per tutta la vita", disse solamente, "ogni sera usciva sul terrazzo a scrutare il cielo per ore, cercandoti tra le stelle, con gli occhi gonfi di lacrime".

Il più grande dei dolori pervase il paperonauta.
Per tutto quel tempo aveva coltivato un rancore cieco verso il generale inflessibile ed egoista, concentrato solamente sulla realizzazione di quel sogno che, a suo tempo, gli era sfuggito.
Capì improvvisamente che un padre, è a sua volta un semplice papero come tutti gli altri.
Ed anche se lo si immagina infallibile, se si fa di tutto per poter essere alla sua altezza, anche un padre può sbagliare, distrarsi dal suo ruolo di guida e di esempio.
Ma non per questo ama di meno i propri figli.

Ivan Ivanovich III uscì all'aria aperta, stupito dalla pressione che le sue zampe esercitavano sul suolo bagnato di pioggia, e dalla leggerezza liberatoria del perdono.
Guardò in alto, ed agitò un'ala in segno di saluto in direzione della galassia, luminosa come mai.
Quando muoiono, i paperi, diventano polvere di stelle.
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07 febbraio 2012

Polvere

Quel pomeriggio la terra sotto i miei piedi mi sembrava solo quello che era.

Era un bel giorno di Maggio del 1993, ed avevamo avuto il permesso dai nostri genitori di portare fuori quel cagnolino schizzato di Tobias a fare una lunga passeggiata lungo il fiume.
La nonna di Daniel aveva preparato per noi uno zainetto pieno di cose da mangiare, c'erano panini con mortadella e formaggio, yoyo al cioccolato, mandarini e bottigliette di coca cola e sprite.
Oltre a noi c'erano le due cuginette di Daniel, Lia e Carmen.
Lia e Carmen si somigliavano moltissimo, con dei bei riccioli lunghi. 
Spesso le confondevo, perché le vedevo molto di rado, venivano al mare solo per pochi weekend.
Non ricordo da che città venissero, ma ricordo perfettamente che abitavano in Via Chopin. Non so perché questo particolare mi sia rimasto impresso dopo tutti questi anni.

Io ero il più grande della spedizione, ma Daniel, più piccolo di me di due anni, era il vero leader di tutti i nostri giochi. Era spericolato, e sempre pieno di idee, mi soverchiava in tutto.
Le cuginette stravedevano per lui.
Io gli stavo dietro, perché da piccolo sono sempre stato un po' timido e pauroso.

Si partiva dal mare, e, passando sotto un vecchio ponticello, si poteva percorrere per parecchi chilometri il fiumiciattolo su un sentiero abbastanza agevole, fino ad un prato dove la gente portava i cani a giocare.
Tobias era uno di quei cagnolini un po' insulsi, che abbaiava a chiunque con quel suo aspetto ridicolo.
Daniel lanciava una pallina da tennis e quello correva velocissimo a recuperarla, buttandosi tra le erbacce e nell'acqua bassa del torrente. Poi, tutto infangato correva a strusciarsi contro di noi, imbrattandoci.
Il sole era piacevole, ed io, dodicenne con gli occhialoni, ascoltavo estasiato Lia (o Carmen?), la più piccola delle due, che avrà avuto dieci anni, raccontarmi che quella era la prima volta che usciva da sola.

Forse mi ero innamorato. La sera, a letto, nelle settimane seguenti, provavo ad impostare i sogni prima di addormentarmi, in maniera tale da ripercorrerli e viverli nel sonno. Io ero il principe John, e Lia era la principessa Elizabeth, di questo sono sicuro, ma non ricordo più come proseguisse la storia.

Quel giorno al pratone non c'era nessuno.
Daniel mise subito i piedi in acqua, camminando agile tra i sassi viscidi, fino a raggiungere la cascatella.
Avrei voluto anche io, ma la sola idea di bagnarmi il pollice di un piede mi faceva pensare agli sberloni che mia mamma sicuramente mi avrebbe rifilato, se fossi tornato a casa con i jeans bagnati.
Mia mamma era una di quelle che ti infila sempre la mano nella schiena per vedere se sei sudato.

Mettemmo giù i teli per il picnic. Le ragazze prepararono tutto con grande entusiasmo, incredule di poter trasformare le centinaia di thé e biscottini coi bambolotti in un vero picnic da adulti.
Eravamo liberi, per la prima volta nella nostra vita senza il controllo a vista dei genitori.

Mangiammo i panini e gli yoyo, ed ognuno di noi raccontò storie mai vissute. 
Per farmi bello, raccontai la mia storia d'amore inventata nella vacanza dell'estate prima, all'isola di Stromboli. Anche questo lo ricordo bene, chissà perché.

Poi facemmo un po' di tiri a fresbee, uno di quelli molli con le facce da mostro, che non andava mai nella direzione desiderata. Tobias lo intercettava sempre.

Sulla via del rientro, io e Daniel progettammo giochi e avventure.
In vista del ponticello decidemmo di fare "a chi arriva primo" fin lì.

Pronti! Via! 
Ma dopo pochi metri Tobias mi agguantò una gamba, mordendo con ferocia l'orlo dei jeans.
E non c'era modo di staccarlo. 
Loro ridevano, ma io ero terrorizzato da quel cagnetto coi denti appuntiti che mi lacerava i pantaloni.
L'unica soluzione fu togliermi i jeans, rimasi in mutande. 
Daniel, Lia e Carmen, si sbellicavano dalle risate ed io ero rosso di rabbia e di vergogna.
Il più grande, preso in giro, umiliato.
Daniel con un'abile mossa riuscì a distrarre Tobias ed a liberare i miei poveri pantaloni.
Me li ri-infilai di corsa, e ricordo perfettamente la sensazione di non riuscire a trattenere il pianto. Ma non potevo piangere. Eppure loro si accorgevano che stavo piagnucolando.
"Piangi?".

Quel giorno di sole del 1993 la terra mi sembrava solamente quello che era.

A questo pensavo in una calda mattina d'autunno di quindici anni dopo.
Accompagnando impotente gli ultimi metri di Daniel, in un silenzio irreale interrotto solo da lievi soffi di vento tra gli alberi.
Ai giochi, alle corse, ai sogni, ai bisticci davanti al commodore 64.
Al nulla che lo aspettava, alla pura e semplice terra.
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