01 aprile 2010

Come un cerchio che si chiude

Giulia e Jean salirono le anguste scale, spinsero la porta di legno socchiusa e lo trovarono lì, seduto.
Avevano saputo che era tornato in città da un paio di giorni, ma nessuno ancora lo aveva visto.
Pensavano avrebbe passeggiato per le vie del centro, cercato i vecchi amici, fatto colazione al piccolo bar.
Per avere notizie andarono dai suoi genitori, ormai anziani, che con fare gentile li avevano indirizzati verso l’unico posto dove, a ragion veduta, sarebbe voluto tornare.

Il salottino angusto non aveva finestre, e lui se ne stava seduto lì sull'unica sedia, dove un tempo c’era uno di quei divani economici da tanto al mucchio.
Ora solo polvere decennale, e qualche cicca di sigaretta molto recente.
Sembrava più giovane di allora, coi pochi capelli cortissimi e una barba folta che gli attribuiva un’aria da scrittore ebreo. Era ben vestito, con pantaloni di lino leggero ed una camicia di ottima fattura, con le maniche arrotolate fino al gomito.
Li vide e sorrise.

Giulia vacillò nel vederlo. Erano passati così tanti anni, il sole era sorto e tramontato migliaia di volte, tutti loro avevano vissuto, lavorato, amato, fatto figli, indipendentemente dal fatto che lui non fosse più lì.
Si dimentica facilmente.
Giulia sentì tutto il dolore di quel filo spezzato.
Anche Jean, dopo aver varcato quella soglia, un tempo così familiare, ebbe un tonfo al cuore.
Davanti a lui uno spettro proveniente da un’eternità dimenticata.
Lo spettro sorrideva, e li invitava ad entrare.

Una sigaretta finì sul pavimento, nella casa c’era solo polvere, ed una sedia.
L'ambiente era completamente disadorno, l’odore di muffa e di chiuso opponeva strenua resistenza all’aria esterna, che per anni aveva dovuto confrontarsi con l’ostacolo inamovibile delle finestre serrate, e timidamente provava ad esplorare quello spazio sconosciuto.

Lui era tornato, insieme a quella primavera ritardataria ed incerta.
Jean, Giulia, che bello vedervi”, e li abbracciò, con la semplicità di chi si è perso solo per qualche settimana.
Non potendo farli accomodare si diressero verso una delle due stanze, nei pressi della finestra aperta.
Cosa hai fatto in tutti questi anni, ogni tanto ci arrivava qualche notizia di te, ma perché non sei mai tornato, perché non ti sei mai fatto vivo, sei come.. sparito”.
Ormai nulla di quel remoto passato aveva il benché minimo significato, e neppure Jean provava più rancore, anche se a lungo aveva fantasticato su come sarebbe stato un loro incontro.
Non c’era più niente che potessi fare Giulia. Nessuno che mi aspettava. Ad un certo punto ero stanco di tutto, anche delle cose che prima amavo. Ho solamente sentito il bisogno di andare, ti sembrerà una stronzata retorica.. a cercare me stesso. Lo so, fa strano detto da me, ma le persone cambiano”.
Jean si guardava intorno, malinconico.
Ricostruiva la posizione dei mobili, e rivedeva i visi di tutti loro, insieme, lì.
Questo posto era davvero.. qualcosa”.
Già, è così no? E’ per questo che sono tornato qui, è come un cerchio che si chiude”.

Giulia pensò a quante volte aveva provato a ripercorrere chiudendo gli occhi i corridoi della scuola, il tragitto dalla classe all’uscita, rivedendo il parquet, le suore, i compagni.
Un minuto prima della campanella la maestra la mandava a vedere se le altre classi erano già uscite, le diceva “vai piccola vedetta lombarda”, quella del Libro Cuore.
Anche questo era un ricordo che quando affiorava faceva male, un altro filo spezzato, la consapevolezza di vita irrimediabilmente passata, persa.
Restarono in silenzio per qualche attimo, poi anche in lui affiorò qualcosa, il suo sorriso da sereno si fece triste.
Ti ricordi Jean quel Natale. Avevamo cenato qui tutti assieme, c’era Lidia che cucinava e cucinava e andava avanti e indietro coi piatti di plastica stracolmi e pentoloni , e poi avevamo sparato lo spumante sul muro, qualcuno aveva scosso troppo la bottiglia”.
Si mi ricordo, era stata una bella notte di Natale, c’eravamo ancora tutti”.
Quella notte, dopo cena voi andaste via e la casa era un vero merdaio. Rimanemmo soli io ed Isabelle come sempre. Lei era incredibilmente bella, incredibilmente. Invece di rassettare o andarcene a letto a fare l’amore, o uscire, facemmo qualcosa che non avevamo mai fatto e che non avremmo fatto più. C’era la musica. Ballammo stretti, come in quei film schifosi, solo che noi ridevamo ed io facevo un po’ lo scemo. Però restammo così per un po'. E’ stupido vero? Ma non passa giorno che io”.

Le persone, in fondo, esplorano il proprio piccolo universo alla ricerca di un lumicino.
Percorrono a tentoni le possibilità, come se essere vivi significhi barcamenarsi attraverso un flusso feroce ed indefinito di esperienze, volti, emozioni, che possono essere giudicate solo “col senno di poi”.
Tutto per restare aggrappati fino a spezzarsi le unghie a quel briciolo di redenzione.
Che deve essere da qualche parte. Nascosta. Dove.

Ed è per questo che la storia finisce qui.
Che non ho più niente da raccontare.
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